Aldilà dei dati che
confermano una certa anomali italiana, soprattutto le generazioni più giovani sono
interessate dalla percezione di un peggioramento complessivo della mobilità.
Da un sondaggio del
2008 di SWG, emerge che, a fronte di un 41% degli ultra cinquantenni che dichiara
di avere una condizione sociale migliore di quello della famiglia di origine, solo
il 6% dei ventenni aveva la stessa percezione. Addirittura, il 20% dei ventenni
sosteneva di trovarsi in uno stato sociale inferiore a quello della famiglia di
origine.
Se la possibilità di carriera, anche a parità
di titolo di studio e bravura, dipende dalla famiglia di origine, non si può parlare
di mobilità sociale, e l'aver raggiunto il titolo di “avvocato” non basta per
far compiere al figlio dell'operaio un vero “salto sociale”.
A questo si
aggiungono le necessarie considerazioni sulla distribuzione del reddito: l'Italia,
negli ultimi anni, ha visto un sostanziale declino del reddito procapite rispetto
agli altri paesi, e ha visto aumentare notevolmente le disuguaglianze, tanto
che oggi è uno dei paesi con maggiore disparità nella distribuzione dei redditi
non solo in Europa, ma in tutta la comunità dei paesi Ocse.
A questo si aggiunge
il fatto che, mentre in molti paesi la povertà colpisce soprattutto anziani e
disoccupati, in Italia colpisce in modo
particolare le famiglie con figli. L’Italia vanta il non invidiabile primato
del più elevato tasso di povertà
infantile d'Europa.
Secondo i dati
Eurostat, in Italia il 25% dei bambini vive in famiglie povere e – a fronte di
questo dato – i test scolastici dell'Ocse condotti sui quindicenni mostrano che
il 67% dei ragazzi italiani che
conseguono cattivi risultati nei test provengono da famiglie di basso status
sociale (e sono sempre i figli delle famiglie più povere e meno istruite
che hanno la minore probabilità di andare all'università e laurearsi, se
consideriamo che l'80% dei laureati ha almeno un genitore laureato).
In estrema sintesi: chi nasce in famiglie agiate ha un'altissima probabilità di rimanere
ricco e di avere un vantaggio enorme nella sua capacità futura di generare reddito,
a fronte della estrema difficoltà di un individuo che parta da livelli
economici modesti di aspirare a migliorare il proprio status economico.
A questo proposito, è
il caso di osservare che l'accesso alle
opportunità di istruzione non è legato all'elitismo e all'inaccessibilità
dell'università (che rispetto ai paesi anglosassoni ha costi assai inferiori),
ma sembra piuttosto essere legato ai meccanismi di funzionamento del mercato del
lavoro e delle carriere.
I giovani possono capitalizzare non solo e non tanto la propria
laurea, quanto, piuttosto, quella del padre: in Italia si trasmettono di generazione
in generazione non solo i beni e i redditi, ma anche le professioni. Il 44% degli architetti è figlio di architetti,
il 42% di avvocati e notai è figlio di avvocati e notai, il 40% dei farmacisti
è figlio di farmacisti e così via, innescando una spirale negativa che non
fa che aumentare l'immobilismo sociale del nostro paese e aumentare la
sensazione di impotenza delle generazioni più giovani.
Anche alla luce di
queste considerazioni, meritano un’attenta
analisi le dimostrazioni di piazza che cominciano ad agitare le piazze delle nostre
città, che qualcuno, assai incautamente, ricollega allo spirito del mitico ’68,
evocato come la “madre di tutte le proteste giovanili”.
Uniche note comuni,
tra oggi e il ’68, sono il luogo della protesta (la strada) e le sue modalità
(corteo con slogan, lancio di pietre e di bottiglie molotov, tafferugli con le
forze dell’ordine…) tutto qui.
E’ vero, oggi come
allora, a protestare sono i giovani, gli studenti: ma nel ’68 erano i soli figli della borghesia, gli unici che potevano
permettersi di andare all’università, mentre i loro coetanei meno abbienti
erano già al lavoro da parecchi anni oppure, come ci ricorda Pier Paolo
Pasolini, vestivano le divise di stoffa
ruvida da poliziotto.
Quando ieri a Valle
Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti
io simpatizzavo coi poliziotti!
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da periferie, contadine o urbane che siano...
coi poliziotti
io simpatizzavo coi poliziotti!
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da periferie, contadine o urbane che siano...
... e voi amici (benché dalla parte
della ragione) eravate i ricchi.
Mentre i poliziotti (che erano dalla parte
del torto) erano i poveri.
della ragione) eravate i ricchi.
Mentre i poliziotti (che erano dalla parte
del torto) erano i poveri.
Ben diverso lo
scenario che si apre oggi ai nostri occhi: TUTTI i nostri figli sono studenti
molto più a lungo e le università (che contano un numero di iscritti di molto
aumentato rispetto a quarant’anni fa) non sono più appannaggio dei soli figli
di papà.
E diversi sono gli
obiettivi che spingono i giovani alla protesta.
Allora si lottava per
degli ideali come la libertà dalle costrizioni e dal perbenismo borghese,
all’inizio, e le utopie politiche inneggianti alla rivoluzione proletaria negli
anni appena successivi. Finita la
sbronza protestataria (durata meno di un decennio, se ne vediamo la fine
coi moti degli autonomi del 77), gli eskimo sono stati riposti e quei figli di papà che animavano i cortei
sono andati a lavorare nell’azienda di famiglia, nello studio del padre
professionista, nei giornali e in TV…
Qualcosa, sarebbe
sciocco nasconderlo, il ’68 ha fatto e qualcosa ci ha lasciato, anche se molto
meno della tanta retorica autoincensante che ancora accompagna quei fatti e
qui giorni.
I ragazzi di oggi,
invece?
A voler parafrasare
Pasolini, verrebbe da dire che, a
confronto, i ricchi sono oggi i poliziotti, visto che uno stipendio, almeno
sicuro, ce l’hanno, e forse anche la pensione per la vecchiaia. Di
contro, i ragazzi che oggi protestano hanno davanti lunghi anni di precariato e
alle spalle famiglie mediamente molto meno ricche.
Non sono animati da
chissà quali ideali e non aspirano, mi sembra, a chissà quali “massimi sistemi”
per rigenerare il mondo: sembrano incazzati e impauriti non tanto per quello
che vivono nell’oggi ma per quello che li attende domani, quando avranno
terminato al scuola.
In Italia, quelli che possono sperare di cavarsela meglio
sono proprio i figli dei sessantottini, quei signori ormai di mezza età, che hanno
preso il posto dei genitori borghesi di allora, come ben ci dimostrano le discendenze “di padre in figlio”
nelle professioni liberali, nel giornalismo, nel mondo accademico.
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