21 novembre 2012

mobilità sociale e protesta in Italia

Qualche riflessione, soprattutto in tempo di crisi, merita il tema della mobilità sociale.
Aldilà dei dati che confermano una certa anomali italiana, soprattutto le generazioni più giovani sono interessate dalla percezione di un peggioramento complessivo della mobilità.
Da un sondaggio del 2008 di SWG, emerge che, a fronte di un 41% degli ultra cinquantenni che dichiara di avere una condizione sociale migliore di quello della famiglia di origine, solo il 6% dei ventenni aveva la stessa percezione. Addirittura, il 20% dei ventenni sosteneva di trovarsi in uno stato sociale inferiore a quello della famiglia di origine.

Se la possibilità di carriera, anche a parità di titolo di studio e bravura, dipende dalla famiglia di origine, non si può parlare di mobilità sociale, e l'aver raggiunto il titolo di “avvocato” non basta per far compiere al figlio dell'operaio un vero “salto sociale”.
A questo si aggiungono le necessarie considerazioni sulla distribuzione del reddito: l'Italia, negli ultimi anni, ha visto un sostanziale declino del reddito procapite rispetto agli altri paesi, e ha visto aumentare notevolmente le disuguaglianze, tanto che oggi è uno dei paesi con maggiore disparità nella distribuzione dei redditi non solo in Europa, ma in tutta la comunità dei paesi Ocse.
A questo si aggiunge il fatto che, mentre in molti paesi la povertà colpisce soprattutto anziani e disoccupati, in Italia colpisce in modo particolare le famiglie con figli. L’Italia vanta il non invidiabile primato del più elevato tasso di povertà infantile d'Europa.
Secondo i dati Eurostat, in Italia il 25% dei bambini vive in famiglie povere e – a fronte di questo dato – i test scolastici dell'Ocse condotti sui quindicenni mostrano che il 67% dei ragazzi italiani che conseguono cattivi risultati nei test provengono da famiglie di basso status sociale (e sono sempre i figli delle famiglie più povere e meno istruite che hanno la minore probabilità di andare all'università e laurearsi, se consideriamo che l'80% dei laureati ha almeno un genitore laureato).
In estrema sintesi: chi nasce in famiglie agiate ha un'altissima probabilità di rimanere ricco e di avere un vantaggio enorme nella sua capacità futura di generare reddito, a fronte della estrema difficoltà di un individuo che parta da livelli economici modesti di aspirare a migliorare il proprio status economico.
A questo proposito, è il caso di osservare che l'accesso alle opportunità di istruzione non è legato all'elitismo e all'inaccessibilità dell'università (che rispetto ai paesi anglosassoni ha costi assai inferiori), ma sembra piuttosto essere legato ai meccanismi di funzionamento del mercato del lavoro e delle carriere.
I giovani possono capitalizzare non solo e non tanto la propria laurea, quanto, piuttosto, quella del padre: in Italia si trasmettono di generazione in generazione non solo i beni e i redditi, ma anche le professioni. Il 44% degli architetti è figlio di architetti, il 42% di avvocati e notai è figlio di avvocati e notai, il 40% dei farmacisti è figlio di farmacisti e così via, innescando una spirale negativa che non fa che aumentare l'immobilismo sociale del nostro paese e aumentare la sensazione di impotenza delle generazioni più giovani.
Anche alla luce di queste considerazioni, meritano un’attenta analisi le dimostrazioni di piazza che cominciano ad agitare le piazze delle nostre città, che qualcuno, assai incautamente, ricollega allo spirito del mitico ’68, evocato come la “madre di tutte le proteste giovanili”.
Uniche note comuni, tra oggi e il ’68, sono il luogo della protesta (la strada) e le sue modalità (corteo con slogan, lancio di pietre e di bottiglie molotov, tafferugli con le forze dell’ordine…) tutto qui.
E’ vero, oggi come allora, a protestare sono i giovani, gli studenti: ma nel ’68 erano i soli figli della borghesia, gli unici che potevano permettersi di andare all’università, mentre i loro coetanei meno abbienti erano già al lavoro da parecchi anni oppure, come ci ricorda Pier Paolo Pasolini, vestivano le divise di stoffa ruvida da poliziotto.

Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte 
coi poliziotti 
io simpatizzavo coi poliziotti! 
Perché i poliziotti sono figli di poveri. 
Vengono da periferie, contadine o urbane che siano...


...  e voi amici (benché dalla parte 
della ragione) eravate i ricchi. 
Mentre i poliziotti (che erano dalla parte 
del torto) erano i poveri.


Ben diverso lo scenario che si apre oggi ai nostri occhi: TUTTI i nostri figli sono studenti molto più a lungo e le università (che contano un numero di iscritti di molto aumentato rispetto a quarant’anni fa) non sono più appannaggio dei soli figli di papà.
E diversi sono gli obiettivi che spingono i giovani alla protesta.
Allora si lottava per degli ideali come la libertà dalle costrizioni e dal perbenismo borghese, all’inizio, e le utopie politiche inneggianti alla rivoluzione proletaria negli anni appena successivi. Finita la sbronza protestataria (durata meno di un decennio, se ne vediamo la fine coi moti degli autonomi del 77), gli eskimo sono stati riposti e quei figli di papà che animavano i cortei sono andati a lavorare nell’azienda di famiglia, nello studio del padre professionista, nei giornali e in TV
Qualcosa, sarebbe sciocco nasconderlo, il ’68 ha fatto e qualcosa ci ha lasciato, anche se molto meno della tanta retorica autoincensante che ancora accompagna quei fatti e qui giorni.
I ragazzi di oggi, invece?
A voler parafrasare Pasolini, verrebbe da dire che, a confronto, i ricchi sono oggi i poliziotti, visto che uno stipendio, almeno sicuro, ce l’hanno, e forse anche la pensione per la vecchiaia. Di contro, i ragazzi che oggi protestano hanno davanti lunghi anni di precariato e alle spalle famiglie mediamente molto meno ricche.
Non sono animati da chissà quali ideali e non aspirano, mi sembra, a chissà quali “massimi sistemi” per rigenerare il mondo: sembrano incazzati e impauriti non tanto per quello che vivono nell’oggi ma per quello che li attende domani, quando avranno terminato al scuola.
In Italia, quelli che possono sperare di cavarsela meglio sono proprio i figli dei sessantottini, quei signori ormai di mezza età, che hanno preso il posto dei genitori borghesi di allora, come ben ci dimostrano le discendenze “di padre in figlio” nelle professioni liberali, nel giornalismo, nel mondo accademico.


Nessun commento:

Posta un commento