-Il
congresso appena celebrato e il cinquantesimo anniversario dalla fine
del "Grande balzo in avanti": un modo forse interessante di
guardare e conoscere la Cina. “Continuare
sulla via del socialismo con caratteristiche cinesi” ha detto Hu Jintao aprendo
i lavori del XVIII congresso del Partito Comunista cinese: il che, tradotto in
poche parole, significa che in Cina continuerà a governare ed essere legale il
solo partito comunista. In
occasione del congresso appena concluso, la capitale è stata tappezzata da
striscioni con la scritta “SENZA IL PARTITO COMUNISTA NON CI SAREBBE UNA NUOVA
CINA” e la censura su canali TV e Inetrnet si è fatta più stringente del
solito. Per dirla
tutta, la Cina è ben lontana da quella “società armoniosa” che Hu
Jintao si era dato come obiettivo. Il
divario tra ricchi e poveri si è fatto più forte e ben 110 milioni di cinesi
vivono con meno di 1,25 dollari al giorno (soglia della povertà
internazionale).
Il sistema,
tuttavia, non è granitico come si potrebbe pensare: sempre più numerosi sono i
casi di proteste spontanee che agitano i poli industriali e che si cominciano a
intravedere anche nella profonda campagna. Nel frattempo, nei soli ultimi
cinque anni, 660.000 funzionari sono stati perseguiti per corruzione (con
24.000 condanne penali a conclusione di indagini e processi).
E i
vertici del Partito Comunista non sono certo immuni: basta, a questo proposito,
il grande reportage di David Barboza per il New York Times (c’è ancora, al
mondo, chi sa fare del buon giornalismo d’inchiesta), che mette in luce lo
strabiliante arricchimento del premier Wen Jiabao e famiglia, a cominciare
dalla madre novantenne che, da poverissima che era, muove ora investimenti
personali dell’ordine delle centinaia di milioni di euro. Di conseguenza, in
Cina, il sito del giornale newyorchese è stato oscurato (clicca per visualizzare l'aricolo del NYT)
Tra gli
anniversari poco celebrati, sempre guardando alla Cina, merita di essere
richiamato il cinquantenario del “Grande Balzo in avanti”, che si chiude nel
1962, dopo quattro anni di delirio, costato la vita a parecchi milioni di
cinesi (trenta/quaranta forse più…).
E’ stato questo il penultimo
genocidio che ha scandito e segnato la storia del Novecento, dopo quelli voluti
e attuati da Stalin, da Hitler e prima dell’ultimo, operato da Pol Pot in
Cambogia (pochi milioni di vittime, in quest’ultimo caso, ma altissima la
percentuale rispetto agli abitanti dello sfortunato Paese).
Ma torniamo a quanto accaduto in
Cina tra il ’58 e il ’62.
A seguito di quanto emerso dal
vertice mondiale dei Partiti Comunisti che si tiene a Mosca nel 1957, dove
Kruscev lancia la sfida per la leadership sul comunismo internazionale, Mao
torna in Cina e ordina di raddoppiare in un anno la produzione di acciaio e
impone drastici cambiamenti nella gestione dell’agricoltura.
Solo nel 1991, con l’autobiografico
“Cigni selvatici” di Jung Chang (scrittrice cinese emigrata in Europa),
iniziamo ad avere notizie di prima mano su quanto accade in Cina in quei
quattro anni.
A riportare l’attenzione su quei
fatti, nel 2010, è l’olandese Frank Dikotter, con il libro “Mao’s Great
Famine”, ricostruzione storica più che documentata, che attribuisce al “grande
balzo in avanti” la responsabilità per la morte di 45 milioni di cittadini
cinesi.
Da ultimo, quest’anno, viene
tradotto in inglese “The Great Chinese Famine 1958-1962”, pubblicato a Hong Kong
nel 2008. Lavoro di ricerca di Yang Jisheng, giornalista in pensione che ha
potuto accedere a documenti ufficiali e riservati, l’opera ricostruisce
meticolosamente molto di quel che avvenne in Cina e stima in almeno 36 milioni
le morti imputabili al Grande Balzo.
Una sorte di
folle corsa alla ricerca di primati impossibili, attuata mediante la
collettivizzazione forzata che portò alla “concentrazione” di tutti i contadini
Cinesi in 28.000 grandi “comuni”, dove la proprietà privata viene messa al
bando, si mangia “tutti e sempre” alla mensa del villaggio, i contadini devono
consegnare tutta la produzione.
A tempo di record vengono costruiti
dighe e canali per aumentare la resa agricola; ogni villaggio, inoltre, deve
dotarsi di un altoforno per produrre ghisa e altri materiali. Sforzi e fatiche
enormi quanto inutili: le dighe, costruite troppo in fretta, spesso
collassavano; gli altiforni, in cui i contadini furono costretti a buttare suppellettili
di ogni tipo, produssero materiali scadenti e del tutto inutili.
Il tutto procedette con ritmi di
lavoro forsennati e pochissimo cibo per i contadini, tanto che si comincia a
morire di stenti e malattie, cui si aggiungono i pestaggi e le esecuzioni da
parte delle milizie. La fame portò a
episodi di cannibalismo, rigorosamente documentati negli archivi, e a un vero e
proprio sterminio dei vecchi e dei bambini, separati dai familiari e
concentrati in “Case della felicità” le cui razioni alimentari dal 1960 scesero
a livelli incredibilmente bassi.
In breve,
la fantasia sembra prendere il posto della realtà e i pochi che osano
obiettare, vengono eliminati. Una sorta di delirio e di isteria collettiva
sembrano impadronirsi delle masse, inebetite dalle privazioni e nella
condizione di dover per forza credere alla verità della propaganda di regime, al
puto che “le parole divorziarono dalla realtà, dalla responsabilità e dai reali
pensieri della gente” (Cigni selvatici, pag. 283).
Nel 1962,
finalmente, Mao viene messo in minoranza da Liu Shaoqi e Deng Xiaoping: vengono
abolite le comuni e le mense collettive, si ripristinano i piccoli lotti
privati… Quattro anni dopo, Mao si vendica, scatenando la Rivoluzione Culturale
(1966-1976), ma questa è un’altra (drammatica) storia.
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