La “rilettura” che ci
viene qui proposta, rigorosamente basata sui testi degli autori classici, ci fa
scoprire più di una convergenza tra la morale ellenica e l’etica cattolica e un
rinnovato invito a riconsiderare l’eredità
che abbiamo ricevuto dal mondo classico.
Per dirla tutta, il
saggio di C olafemmina fa a pezzi la
vulgata tradizionale inneggiante a una Grecia classica libera e gaia, la cui
felicità sarebbe stata soffocata dall’avvento della buia morale cristiana.
Il “mito”
dell’omosessualità greca
“Secondo il dogma
ormai imperante, nell’antica Grecia la pedofilia (o efebofilia) sarebbe stata
al centro di un vero e proprio rito di iniziazione: l’uomo adulto, l’erastés,
aveva rapporti sessuali con l’adolescente, l’eròmenos, e così facendo lo
formava anche spiritualmente” osserva C olafemmina
e da qui si è poi passati a definire il “dogma
dell’assenza di una “morale sessuale” nell’antichità classica, attraverso la
proclamazione dell’omosessualità come qualcosa di naturale.”
Pur raccontando che
l’omosessualità è diffusa in taluni ambienti aristocratici ateniesi, Platone
scrive che l’omosessualità è «contro natura» e nelle Leggi (636, c), ad
esempio, si legge testualmente: «Il
piacere di uomini con uomini e donne con donne è contro natura e tale atto
temerario nasce dall’incapacità di dominare il piacere».
A ciò si aggiunge il
travisamento del Simposio di Platone, dove il filosofo – secondo C olafemmina - farebbe parlare Pausania a favore
dell’omosessualità, senza esprimere alcuna approvazione.
In buona sostanza
dovremmo riconoscere che nella Grecia classica l’omosessualità non era affatto
così diffusa come si crede, e soprattutto non era istituzionalizzata, tanto che,
secondo Eschine, era addirittura vietato agli adulti essere apertamente
omosessuali praticanti.
Anche sul “politicamente corretto” degli antichi
Greci quando si parla di omosessualità ci sarebbe qualcosa da dire. Gli
omosessuali erano chiamati con un appellativo decisamente forte: cinedi
(kinaidos al singolare), etimologicamente “colui che smuove la vergogna” o, per
altri, e in un senso ancor più realistico, “le vergogne”.
In buona misura, Il “mito” dell’ordinaria omosessualità del mondo
greco deriverebbe dalla tendenza della nostra epoca a
“sessualizzare” tutto e troppo. I “ti amo” trovati nelle lettere di Leopardi a
Ranieri o in quelle di Frontone a Marc’Aurelio, l’amicizia di Patroclo e
Achille o di Eurialo e Niso, sono diventati immediatamente “chiari indici di
omosessualità” e non come scambi di amichevole e profonda affettuosità
Il matrimonio
A ben guardare, non
sono poche le assonanze tra il matrimonio nell’antica Grecia e il matrimonio
così come viene concepito dal C ristianesimo.
Leggendo l’Economico di Senofonte, vediamo che anche per la Grecia classica il
fine principale del matrimonio era la procreazione e che l’ateniese del IV
secolo avanti C risto considerava i
figli “una grazia di Dio”. Sempre da Senofonte, inoltre, sappiamo che l’altro
fine del matrimonio era l’educazione della prole.
I “Precetti coniugali”
(Gamikà Paranghélmata) di Plutarco di C herone sono una lettura strabiliante se pensiamo
che provengono da una fonte pagana. Furono composti da Plutarco in occasione
del matrimonio di due suoi allievi, Polliano ed Euridice, nel I secolo dopo C risto. È un’opera agile e godibilissima, un trattatello
sulla vita coniugale ricco di massime, amorevoli consigli pratici e racconti
esemplari.
Rappresentano bene
quella che era l’etica matrimoniale per gli antichi greci, nutrita da valori
saldi, da rapporti fondamentalmente monogamici propri di una solida civiltà
contadina, valori poi trasferitisi nella società cristiana. Non è certo un caso
se l’opera plutarchea sarà poi ripresa da autori cristiani come Ugo da San
Vittore (“De amore sponsi ad sponsam”)
e san Girolamo (“Adversus Iovinianum”).
La condizione
della donna
Stratagemmi privati
anche per contribuire alla scelta del marito: una tradizione viva fino a
qualche decennio fa in Grecia. Il pretendente, il gambròs, si recava nella casa
della ragazza per incontrare il padre e magari concordare i termini della dote.
La particolarità era tutta nel salotto in cui il giovane veniva accolto, dove un
buco sulla parete permetteva alla figlia di osservare chi era arrivato fin lì
per chiedere la sua mano. Se il giovane non le andava a genio veniva servito un
caffè molto zuccherato, il caffè della
consolazione, appunto. Il giovane non avrebbe avuto la mano della ragazza
ma sarebbe tornato a casa con la bocca dolce.
In buona sostanza, la condizione della donna greca era quella
tipica della società antica tradizionale, con contorni analoghi a quelli della nostra
società contadina fino al secondo dopoguerra.
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