28 dicembre 2012

matrimonio e sessualità nella Grecia antica

 -“Il matrimonio nella Grecia classica” (edizioni Settecolori) è il nuovo saggio di Francesco Colafemmina, giovane filologo e grecista che propone una radicale revisione sui molti luoghi comuni che imperversano in tema di morale sessuale, condizione della donna, valore del matrimonio presso gli antichi Greci.
La “rilettura” che ci viene qui proposta, rigorosamente basata sui testi degli autori classici, ci fa scoprire più di una convergenza tra la morale ellenica e l’etica cattolica e un rinnovato invito a  riconsiderare l’eredità che abbiamo ricevuto dal mondo classico.
Per dirla tutta, il saggio di Colafemmina fa a pezzi la vulgata tradizionale inneggiante a una Grecia classica libera e gaia, la cui felicità sarebbe stata soffocata dall’avvento della buia morale cristiana.
Cominciamo dunque a ripercorrere i molti luoghi comuni, guardandoli attraverso la lente che ci propone Francesco Colafemmina.
Il “mito” dell’omosessualità greca
Secondo il dogma ormai imperante, nell’antica Grecia la pedofilia (o efebofilia) sarebbe stata al centro di un vero e proprio rito di iniziazione: l’uomo adulto, l’erastés, aveva rapporti sessuali con l’adolescente, l’eròmenos, e così facendo lo formava anche spiritualmente” osserva Colafemmina e da qui si è poi passati a definire il “dogma dell’assenza di una “morale sessuale” nell’antichità classica, attraverso la proclamazione dell’omosessualità come qualcosa di naturale.”
Pur raccontando che l’omosessualità è diffusa in taluni ambienti aristocratici ateniesi, Platone scrive che l’omosessualità è «contro natura» e nelle Leggi (636, c), ad esempio, si legge testualmente: «Il piacere di uomini con uomini e donne con donne è contro natura e tale atto temerario nasce dall’incapacità di dominare il piacere».
A ciò si aggiunge il travisamento del Simposio di Platone, dove il filosofo – secondo Colafemmina - farebbe parlare Pausania a favore dell’omosessualità, senza esprimere alcuna approvazione.
In buona sostanza dovremmo riconoscere che nella Grecia classica l’omosessualità non era affatto così diffusa come si crede, e soprattutto non era istituzionalizzata, tanto che, secondo Eschine, era addirittura vietato agli adulti essere apertamente omosessuali praticanti.
Anche sul “politicamente corretto” degli antichi Greci quando si parla di omosessualità ci sarebbe qualcosa da dire. Gli omosessuali erano chiamati con un appellativo decisamente forte: cinedi (kinaidos al singolare), etimologicamente “colui che smuove la vergogna” o, per altri, e in un senso ancor più realistico, “le vergogne”.
Celebre è il repertorio, che oggi si direbbe omofobico, che il grande Aristofane dedica ai gay del suo tempo, definiti con epiteti come lakkoproktos (dal deretano come una cisterna”), katapygon (“sfondato nelle natiche”), euryproktos (“culaperto”): espressioni che potremmo dire “poco gay-friendly”.
In buona misura, Il “mito” dell’ordinaria omosessualità del mondo greco deriverebbe dalla tendenza della nostra epoca a “sessualizzare” tutto e troppo. I “ti amo” trovati nelle lettere di Leopardi a Ranieri o in quelle di Frontone a Marc’Aurelio, l’amicizia di Patroclo e Achille o di Eurialo e Niso, sono diventati immediatamente “chiari indici di omosessualità” e non come scambi di amichevole e profonda affettuosità
Il matrimonio
A ben guardare, non sono poche le assonanze tra il matrimonio nell’antica Grecia e il matrimonio così come viene concepito dal Cristianesimo. Leggendo l’Economico di Senofonte, vediamo che anche per la Grecia classica il fine principale del matrimonio era la procreazione e che l’ateniese del IV secolo avanti Cristo considerava i figli “una grazia di Dio”. Sempre da Senofonte, inoltre, sappiamo che l’altro fine del matrimonio era l’educazione della prole.
Certo è che il matrimonio per gli antichi greci non era legalmente indissolubile come per i cristiani. Eppure anche su questo tema quello che solitamente non si dice è che il rapporto monogamico è in qualche modo insito nella cultura greca.
I “Precetti coniugali” (Gamikà Paranghélmata)  di Plutarco di Cherone sono una lettura strabiliante se pensiamo che provengono da una fonte pagana. Furono composti da Plutarco in occasione del matrimonio di due suoi allievi, Polliano ed Euridice, nel I secolo dopo Cristo. È un’opera agile e godibilissima, un trattatello sulla vita coniugale ricco di massime, amorevoli consigli pratici e racconti esemplari.
Rappresentano bene quella che era l’etica matrimoniale per gli antichi greci, nutrita da valori saldi, da rapporti fondamentalmente monogamici propri di una solida civiltà contadina, valori poi trasferitisi nella società cristiana. Non è certo un caso se l’opera plutarchea sarà poi ripresa da autori cristiani come Ugo da San Vittore (“De amore sponsi ad sponsam”) e san Girolamo (“Adversus Iovinianum”).
La condizione della donna
Stratagemmi privati anche per contribuire alla scelta del marito: una tradizione viva fino a qualche decennio fa in Grecia. Il pretendente, il gambròs, si recava nella casa della ragazza per incontrare il padre e magari concordare i termini della dote. La particolarità era tutta nel salotto in cui il giovane veniva accolto, dove un buco sulla parete permetteva alla figlia di osservare chi era arrivato fin lì per chiedere la sua mano. Se il giovane non le andava a genio veniva servito un caffè molto zuccherato, il caffè della consolazione, appunto. Il giovane non avrebbe avuto la mano della ragazza ma sarebbe tornato a casa con la bocca dolce.
In buona sostanza, la condizione della donna greca era quella tipica della società antica tradizionale, con contorni analoghi a quelli della nostra società contadina fino al secondo dopoguerra.

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