-Ritorna ancora alla nostra
attenzione il tema dei cosiddetti “nativi digitali”, con tutto ciò che li
differenzia da chi digitale non è e con le conseguenti difficoltà
interpretative da parte degli adulti. Non si tratta di dare giudizi,
quanto, piuttosto, di prendere coscienza di una situazione oggettivamente
diversa: i nostra ragazzi crescono (sarebbe meglio dire “sviluppano il loro
modo di pensare”) con modalità diverse dalle nsotre e diverse da quelle di
tutti gli uomini che li hanno preceduti. Il loro bagaglio di esperienze è
improntato alla velocità e al “multitasking”, con una massa immane di
informazioni, testuali e iconografiche: ovvio che non possano/sappiano leggere
con le stesse modalità dei loro genitori, dei loro insegnanti, dei loro nonni…
Il che non significa che i nostri ragazzi debbano per forza di cose essere
incapaci alla lettura meditata e approfondita. SI tratta, semmai, di essere
consapevoli che i nostri ragazzi usano il cervello in modo un poco diverso dal
nostro.
Interessante, a questo proposito, un
articolo di Cristina Taglietti,
pubblicato sul supplemento “La lettura” del Corriera della Sera e intitolato “Spegnete
i tablet. I ragazzi non sanno leggere”.
A parte il
tono negativo (forse più opportuno dire che i ragazzi leggono “diversamente”
rispetto a un tempo, merita riportare qui di seguito ampi stralci di questo
contributo.
“…Uno degli allarmi che arriva da
insegnanti e presidi riguarda proprio la capacità di lettura degli studenti
delle scuole superiori spesso compromessa da un’abitudine a una comunicazione
veloce, per immagini. Ragazzi che non sanno più ascoltare, leggere, scrivere ma
anche parlare in modo corretto, dotati di un vocabolario ridotto e strutture
sintattiche elementari, anche se magari non è Internet che ci rende stupidi per
citare il titolo (con punto interrogativo) di un saggio di Nicholas Carr. «È un
problema segnalato da molti, non soltanto insegnanti e non soltanto in Italia —
dice Duccio Demetrio, docente di
Filosofia dell’educazione all’Università Bicocca di Milano —. La deconcentrazione continua è una vera
patologia: i ragazzi sono sottoposti a ripetuti attraversamenti di altri
linguaggi».
Osserva il linguista Raffaele Simone
che “si è passati da una concezione
classica della lettura come la definisce Georges Steiner
in cui è necessario silenzio, solitudine, continuità a quella attuale che si
basa sull’interruzione e sull’impazienza. La lettura è diventata un’attività
frammentaria, come la
scrittura. I giovani fanno le loro ricerche in Internet:
prevalgono il copia-incolla e il leggi e salta». Il fatto è che email,
forum, sms, Facebook, Twitter contengono un’abbondanza di testi non argomentativi,
sconnessi gli uni dagli altri per cui, dice Simone, «la scrittura diventa
l’espressione di un pensiero simultaneo, non una pratica controllata».
Il fatto è che un processo come
questo non è reversibile: «Chi vince ha
ragione, quindi siano noi a doverci trasformare. Il problema è che la scuola è
il luogo della conservazione, quindi intrinsecamente incapace di rispondere
alla provocazione costituita dalla mediasfera. Non può precedere il cambiamento
delle conoscenze, essendo il suo ruolo piuttosto quello di seguirlo».
Il rischio è che i tentativi che si
fanno vadano nel senso di un’accoglienza superficiale e perciò sostanzialmente
inutile, se non dannosa. «L’enfasi con
cui si accoglie l’introduzione delle nuove tecnologie nelle classi —
continua Simone — significa che ci stiamo
arrendendo. Mentre sarebbe necessaria una seria riflessione e pensare a
progressivi cambiamenti nella didattica».
Per Duccio Demetrio servirebbero anche forme diverse di approcci ai testi:
«Nelle scuole superiori le occasioni per
avvicinarsi alla lettura vengono affidate ai programmi tradizionali che
oltretutto, per quanto riguarda la letteratura, non comprendono il mondo
contemporaneo, quello che potrebbe interessare di più gli studenti. Perché non
far leggere Ammaniti o la
Tamaro o anche Volo? Perché non studiare iniziative semplici
che coinvolgano gli studenti e i testi in modo attivo?”
… La lettura, secondo Demetrio,
appare in contrasto con quelli che sembrano i bisogni degli adolescenti di
oggi: «Il testo complesso viene rifiutato perché si legge in modo soltanto
funzionale, per dare una risposta rapida. La lettura richiede solitudine,
silenzio, ritorno alla propria intimità mentre la caratteristica delle nuove
generazioni sembra invece il bisogno di relazionalità, di confronto pubblico».
Martino Sacchi, docente di storia e
filosofia al liceo scientifico Giordano Bruno di Melzo (Milano), dipinge una
situazione preoccupante: …«C’è un problema a monte, di comprensione
lessicale prima ancora che di comprensione intratestuale, di lettura profonda.
I ragazzi non conoscono il significato di parole anche relativamente semplici.
Leggendo un brano tratto dal Fedro di
Platone sul mito del carro alato mi sono sentito chiedere che cosa significa
“destriero”. Un’altra volta che cosa significa “frontespizio”. Uno studente di
quinta liceo non riesce a risolvere un problema dove si parla del profilo di
una finestra perché lo confonde con lo spessore. E teniamo presente che il
nostro è un liceo dove c’è un processo di autoselezione, ci sono ragazzi
motivati che vengono da famiglie motivate».
Il problema secondo Sacchi è
radicale: «Si tratta della sedimentazione
del lessico, della sintassi, dell’ordine e della formattazione del testo che
nasce a partire dalle elementari. È essenziale ricostruire la filiera
educativa, dalla scuola primaria all’università. Noi riceviamo lelamentele dei
professori universitari e a nostra volta le riversiamo sulla scuola
dell’obbligo dove, però, come sappiamo, i docenti si sono trovati di fonte a
problemi complessi legati soprattutto alla mancanza di fondi. Negli anni
Sessanta la scuola elementare doveva insegnare a leggere, scrivere e far di
conto. Adesso deve insegnare molte altre cose e le basi si perdono».
Ugo Cornia, scrittore modenese, ha
insegnato per 15 anni negli istituti professionali (il suo nuovo romanzo, edito
da Feltrinelli, si intitola appunto Il professionale): «Ci tengo subito a dire una cosa: so che
queste scuole hanno fama di posti un po’ degradati, quasi pericolosi, la mia
esperienza, invece, da questo punto di vista, è stata estremamente positiva».
Certo, il professionale è un osservatorio sociale particolare, dove il problema
della lettura profonda passa quasi in secondo piano. «Credo che qui in Emilia, zona ricca che assorbe facilmente posti di
lavoro, almeno il 70 per cento degli studenti siano extracomunitari. Spesso ci troviamo con ragazzi che sono in
Italia da due o tre anni, a volte arrivano dopo tre mesi che la scuola è
cominciata: se gli chiedi “Come va?” ti rispondono “Sì”. In realtà ho sempre trovato situazioni
diverse: magari c’era metà classe che non capiva emetà che seguiva benissimo.
Io so che se leggiamo un brano in classe e chiedo il significato di alcune
parole posso avere le risposte più assurde. C’è chi copia pari pari brani da
Internet e nega di averlo fatto. Magari dentro c’è la parola ermeneutica, io
chiedo che cosa significa e naturalmente nessuno lo sa».
Quando si parla di una forma di
incapacità di lettura, non si parla soltanto di testi letterari. «La
riflessione sul linguaggio riguarda anche testi di altro tipo, manuali
eccetera», dice la linguista Grazia Basile che con Anna Rosa Guerriero
e Sergio Lubello ha scritto Competenze linguistiche per l’accesso
all’università: «Ci siamo trovati in
facoltà con ragazzi che si sono dimenticati che cos’è un soggetto, che hanno
scarsa dimestichezza con i testi, di qualunque tipo. È vero, molte cose sono
cambiate, c’è una velocità nella comunicazione che vent’anni fa non c’era, i
nuovi linguaggi potrebbero addirittura favorirli. Naturalmente non si può
generalizzare: tutti sappiamo che ci sono ragazzi capaci di grandi riflessioni
e con alte competenze».
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