19 ottobre 2012

Il medico, l'errore e noi

-Una domanda su tutte: possibile che si tratti sempre e solo di “malasanità” o con il neologismo sapientemente creato dai media si comprendono anche casi che rimandano semplicemente alla fragilità del nostro essere uomini e alla morte che è connaturata al nostro essere vivi?
E proviamo, allora, ad addentrarci un poco anche su questo terreno assolutamente tabù dei giorni nostri, nella consapevolezza di essere, noi uomini del mondo sviluppato, sicuramente dei fortunati, laddove si intenda misurare questa fortuna con la durata media della vita, ormai tranquillamente veleggiante oltre gli ottant’anni. Ma ciò non deve mai farci dimenticare che…

A questo proposito ci sembra interessante uno scambio di opinioni tra il prof. Gabriele Bronzetti dell’Università di Bologna e Umberto Galimberti,  apparso su Repubblica nell’aprile di quest’anno, che ripeschiamo, a distanza di tempo, perché rimane intatto il buon senso che vi abbiamo trovato.
Osserva il primo, come introduzione al tema, che “La medicina, come tutte le scienze, è per definizione approssimativa, si può avvicinare alla perfezione ma non la potrà mai raggiungere. Dei puntini rossi sulla pelle  sono compatibili con la banale diagnosi di morbillo, ma anche con quella di un'incipiente meningite fulminante. Il medico bravo deve discernere, ma deve essere anche fortunato”.
Sembra quasi una difesa d’ufficio della categoria medica, ma ci sembra ben condivisibile l’osservazione che segue: “se ricoveri mille vomiti apparentemente non gravi puoi salvare un eventuale rigurgito fatale, ma a scapito del "posto" (inteso come spazio fisico e risorse sanitarie) che può salvare due o tre pazienti in condizioni sicuramente a rischio di vita”.
E questo perchè “ai nostri  giorni la morte non è più percepita come  possibilità, bensì come complicanza” e, quindi, “se si muore vuol dire che qualcuno ha sbagliato e dunque deve pagare”.
Meritevole di essere ripescata quasi per intero la riflessione che Umberto Galimberti fa seguire:
“Non siamo più capaci di accettare la morte e di meditare su quella considerazione di Michel Foucault che ci ricorda che "non moriamo perché ci ammaliamo, ma ci ammaliamo perché fondamentalmente dobbiamo morire". Neppure la promessa cristiana di una vita ultraterrena attenua l'angoscia della morte. Sappiamo che dobbiamo morire, ma questo sapere riguarda l'uomo in generale, non noi in particolare perché, come scrive Freud in Noi e la morte: "Il nostro inconscio è incapace di rappresentarci la nostra morte". E questo può essere anche un vantaggio per avere la forza di vivere, ma non ci prepara all'incontro con la morte.
A ciò si aggiunge il fatto che un tempo, quando i figli vedevano morire i padri e i padri i figli, quando pestilenze e guerre seminavano morte, gli uomini avevano una psiche capace di accompagnare il morente e riti collettivi per reggere il lutto. Oggi abbiamo perso queste capacità psichiche individuali e collettive perché, con l'avvento della tecnica, abbiamo delegato la malattia e la morte a quelle strutture tecniche che sono gli ospedali e a quegli operatori che sono i medici, a cui chiediamo, nel trattamento dei pazienti, quell'umanità di cui spesso noi siamo privi.
La sacralità che un tempo rivestiva la figura del medico, come lei opportunamente ricorda, oggi gli si rivolge contro perché, in una cultura in cui non solo non si accetta la morte, ma neppure se ne fa esperienza, ogni decesso non è mai disgiunto da un'accusa esplicita o da un sospetto implicito nei confronti del medico, a cui si è conferita una fiducia acritica e illimitata che sottintende una presunta onnipotenza. Mentre la medicina non è onnipotente, e come ogni scienza sperimentale e non esatta, non può procedere che per prove ed errori”.
Rimane sempre attuale quanto osservava Ippocrate a proposito dell'arte medica: "La vita è breve, l'arte vasta, l'occasione istantanea, l'esperimento malcerto, il giudizio difficile" e bene richiamarlo alla nostra memoria, di tanto in tanto, non per scusare eventuali manchevolezze di questo o quel medico, ma per ricordarci che la fragilità, per quanto questo ci dispiaccia e non lo si voglia ammettere, fa parte della nostra vita.

 

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