-Una
domanda su tutte: possibile che si tratti sempre e solo di “malasanità” o con
il neologismo sapientemente creato dai media si comprendono anche casi che
rimandano semplicemente alla fragilità del nostro essere uomini e alla morte
che è connaturata al nostro essere vivi?
E
proviamo, allora, ad addentrarci un poco anche su questo terreno assolutamente
tabù dei giorni nostri, nella consapevolezza di essere, noi uomini del mondo
sviluppato, sicuramente dei fortunati, laddove si intenda misurare questa
fortuna con la durata media della vita, ormai tranquillamente veleggiante oltre
gli ottant’anni. Ma ciò non deve mai farci dimenticare che…
A
questo proposito ci sembra interessante uno scambio di opinioni tra il prof.
Gabriele Bronzetti dell’Università di Bologna e Umberto Galimberti, apparso su Repubblica nell’aprile di
quest’anno, che ripeschiamo, a distanza di tempo, perché rimane intatto il buon
senso che vi abbiamo trovato.
Osserva
il primo, come introduzione al tema, che “La
medicina, come tutte le scienze, è per definizione
approssimativa, si può avvicinare alla perfezione ma non la potrà mai
raggiungere. Dei puntini rossi sulla pelle sono compatibili con la banale
diagnosi di morbillo, ma anche con quella di un'incipiente meningite
fulminante. Il medico bravo deve discernere, ma deve essere
anche fortunato”.
Sembra
quasi una difesa d’ufficio della categoria medica, ma ci sembra ben
condivisibile l’osservazione che segue: “se
ricoveri mille vomiti apparentemente non gravi puoi salvare un eventuale
rigurgito fatale, ma a scapito del "posto" (inteso come spazio fisico
e risorse sanitarie) che può salvare due o tre pazienti in condizioni
sicuramente a rischio di vita”.
E
questo perchè “ai nostri giorni la
morte non è più percepita come possibilità, bensì come complicanza”
e, quindi, “se si muore vuol dire che
qualcuno ha sbagliato e dunque deve pagare”.
Meritevole
di essere ripescata quasi per intero la riflessione che Umberto Galimberti fa
seguire:
“Non siamo più capaci di accettare la
morte e di meditare su quella considerazione di Michel Foucault che ci ricorda
che "non moriamo perché ci ammaliamo, ma ci ammaliamo perché
fondamentalmente dobbiamo morire". Neppure la promessa cristiana di una
vita ultraterrena attenua l'angoscia della morte. Sappiamo che dobbiamo morire,
ma questo sapere riguarda l'uomo in generale, non noi in particolare perché,
come scrive Freud in Noi e la morte: "Il nostro inconscio è incapace di
rappresentarci la nostra morte". E questo può essere anche un vantaggio
per avere la forza di vivere, ma non ci prepara all'incontro con la morte.
A ciò si aggiunge il fatto che un
tempo, quando i figli vedevano morire i padri e i padri i figli, quando
pestilenze e guerre seminavano morte, gli uomini avevano una psiche capace di
accompagnare il morente e riti collettivi per reggere il lutto. Oggi abbiamo
perso queste capacità psichiche individuali e collettive perché, con l'avvento
della tecnica, abbiamo delegato la malattia e la morte a quelle strutture
tecniche che sono gli ospedali e a quegli operatori che sono i medici, a cui
chiediamo, nel trattamento dei pazienti, quell'umanità di cui spesso noi siamo
privi.
La sacralità che un tempo rivestiva la
figura del medico, come lei opportunamente ricorda, oggi gli si rivolge contro
perché, in una cultura in cui non solo non si accetta la morte, ma neppure se
ne fa esperienza, ogni decesso non è mai disgiunto da un'accusa esplicita o da
un sospetto implicito nei confronti del medico, a cui si è conferita una
fiducia acritica e illimitata che sottintende una presunta onnipotenza. Mentre
la medicina non è onnipotente, e come ogni scienza sperimentale e non esatta,
non può procedere che per prove ed errori”.
Rimane
sempre attuale quanto osservava Ippocrate a proposito dell'arte medica: "La vita è breve, l'arte vasta,
l'occasione istantanea, l'esperimento malcerto, il giudizio difficile"
e bene richiamarlo alla nostra memoria, di tanto in tanto, non per scusare
eventuali manchevolezze di questo o quel medico, ma per ricordarci che la
fragilità, per quanto questo ci dispiaccia e non lo si voglia ammettere, fa
parte della nostra vita.
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