- Su Internazionale del 13/19 gennaio 2012 troviamo un
interessante articolo di Kerstin Bund, pubblicato dal tedesco Die Zeit, che prosegue
e integra quanto detto da Wolfang Achatius, sempre sulle colonne di Die Zeit che pure abbiamo riportato su questo
blog. Diamo per “saltabile” la prima parte dedicata alle nuove modalità
di scambio e fruizione di vestiti usati, che ci presenta una tendenza forse
eccessivamente “di moda” e che già conosciamo.
Più interessante il resto dell’articolo, dedicato al
concetto di “possesso” e all’esagerata dotazione di beni acquistati, accumulati
e (non sempre) usati dagli appartenenti alla nostra società.
“L’epoca della proprietà sta finendo, è cominciata l’era
dell’accesso”, profetizzava dieci anni fa l’economista statunitense Jeremy
Rifkin nel suo saggio L’era dell’accesso.
“All’epoca il libro
diventò un best seller, ma per molti Rifkin era un folle visionario” che oggi, invece, gode di ben altra
stima e considerazione. Sempre secondo Rifkin “Sta cominciando una nuova era in cui useremo i beni per un periodo
limitato di tempo e li metteremo in comune”, andando verso quella che chiama
una “rivoluzione collaborativa”
Prima di arrivare a questo, dovremo sbarazzarci del
superfluo, che tanto oggi ci sommerge: “Secondo
uno studio commissionato da eBay, negli armadi di tutta la Germania è contenuta una
quantità di oggetti inutilizzati per un valore di 35,5 miliardi di euro. Ogni
nucleo familiare accumula cose di cui non ha bisogno per un valore di 1.013
euro… risultato di un meccanismo che per molto tempo ha funzionato piuttosto
bene: l’iperconsumo. Se le imprese
volevano produrre di più, bisognava che le persone comprassero di più. E dal
momento che i prodotti venivano lanciati sul mercato sempre più rapidamente,
gli acquirenti dovevano procurarseli a intervalli sempre più brevi”.
I consumatori più consapevoli si rendono conto che in molti
casi non desiderano i prodotti, ma solo i benefici che ne derivano.
In diversi settori dell’economia i consumatori vogliono
usare invece di possedere.
Va osservato che la nostra società tiene ancora alla proprietà:
“secondo uno studio tedesco compiuto nel
2010 per conto del ministero dell’ambiente, negli ultimi tre anni il 40 per
cento degli intervistati non aveva mai preso in affitto un oggetto d’uso comune
e quasi il 30 per cento non aveva mai chiesto qualcosa in prestito a un
conoscente o a un vicino”.
Ma le abitudini cambiano:
“Circa un terzo dei consumatori si dichiara aperto alle forme di consumo senza
possesso. Di frequente si tratta di persone con un alto grado d’istruzione, di
famiglie con bambini piccoli o di giovani che cambiano spesso casa e posto di
lavoro e già solo per questo non hanno voglia di trasportare molte cose da un
luogo all altro. I più aperti fanno parte soprattutto della generazione che ha
familiarizzato in rete con l’idea dello scambio e della condivisione e l’ha
interiorizzata con i social network”.
Emblematico, in questa direzione, il rapporto tra proprietà
e uso dell’automobile nelle generazioni più giovani: “l’intenso legame dei tedeschi con la loro automobile si sta allentando…
Mentre nel 2000 più della metà degli uomini tra i 18 e i 29 anni aveva una
macchina di proprietà, oggi la quota si è ridotta a un terzo e anche a meno
nelle zone urbane. Secondo lo studio realizzato da Timescout, l’80 per cento
dei giovani considera l’automobile superflua e il 45 per cento degli
intervistati trova poco simpatici i proprietari di auto di grossa cilindrata.
Molti riescono a immaginare una vita senza automobile, ma non senza cellulare o
senza internet. Per i più giovani la macchina come rappresentazione della loro
personalità perde rilevanza e la marca dell’auto non è più un’integrazione
simbolica della loro immagine”.
Gli oggetti inutili non esistono, ce ne sono solo di utili
nel posto sbagliato. Internet, social network e computer in miniatura
favoriscono l’incontro tra domanda e offerta e permettono lo scambio con pochi
click e uno sforzo pressoché pari a zero.
A questo si aggiunge il non trascurabile fatto che “una maggior tendenza a condividere e ad
affittare implica il fatto che si produce e si spreca di meno, l’economia del
“quello che è mio è tuo” favorisce anche l’ambiente”. E la comunità in cui
avvengono gli scambi non presuppone il contatto fisico come un tempo, ma si
basa – grazie alla rete – su comunità nuove, che nascono e vivono in rete, dove
feedback e reputazione sono forti come lo potevano essere nelle comunità locali
di un tempo.
Conclude l’articolo osservando che “L’economia del “quello che è mio è tuo” darà vita a una società
diversa? Se questo accadrà, sara a spese del prezzo. Il possesso di certo non
scomparirà, ma in molti settori il suo valore potrebbe diventare incalcolabile.
Le magliette, i telefoni cellulari e i trapani sono ancora abbastanza
convenienti, e quasi tutti possono permetterseli. Ma se i prezzi
rispecchiassero finalmente il costo effettivo, e quindi anche i danni
ambientali, potrebbe rendersi necessario un aumento dei consumi collettivi, che
in futuro potrebbero diventare normali come lo scambio di informazioni su
internet, dove masse di utenti collaborano per la creazione di valori. E
imparano che a ogni azione corrisponde una reazione. Quindi, l’economia del
“quello che è mio è tuo” non è stimolata dalla fede nell’avvento dell’uomo
nuovo: in questo mondo non vivono consumatori migliori ,ma solo persone che
vanno più d’accordo. E questo è inevitabile”.
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