30 maggio 2013

Riflessioni a margine

--Quando ha deciso di farla finita, di togliere il disturbo, Carolina Picchio, 15 anni, ha scritto “Scusate se non sono abbastanza forte, mi dispiace”: poche parole, semplici, di una “normalità” assoluta, che non denotano angoscia e non lasciano trasparire inquietudini, se non fosse per il contesto, drammatico, in cui sono state scritte.
E allora viene da interrogarsi su cosa sta dietro queste parole, tentare di capire cosa ha voluto dirci una ragazza di quindici anni, pochi istanti prima di gettarsi nel vuoto dal balcone di casa. 
“Oggi per sopravvivere bisogna essere forti” sembra suggerirci Carolina, quasi che la vita sia una sorta di guerra continua, dura e difficile da affrontare, dove si rischia di essere inghiottiti da solitudine e frustrazioni, all’insegna di una assoluta insensatezza.
Una situazione in cui la “piazza virtuale” di Facebook o Twitter deve essere presa in considerazione per quel che può significare per e nella vita dei nostri ragazzi, senza per questo scatenare inutili cacce alle streghe che nulla potrebbero di fronte al dato di realtà, al fatto che i social network esistono e da essi non possiamo prescindere.
Da dove si genera il “bullismo” di cui tanto, finalmente, si parla, e che tanto disagio provoca? 
“Come si produce nelle forme tanto subdole e atroci che sempre più spesso oggi, nelle aule di scuola o nei social network, scatena furibonde persecuzioni? Gli “esperti”, una gamma sempre più vasta di psicologi, pedagogisti, scrittori, sociologi, terapeuti, giudici… il più delle volte analizzano le dinamiche del fenomeno indicando le strategie della “lotta”, raccomandando il coraggio della denuncia, la collaborazione, il dialogo”. 
Forse più attentamente, guardando alle vessazioni in rete che avrebbero indotto Carolina Picchio al suicidio,  Anna Oliverio Ferraris, psicologa dell’Università La Sapienza di Roma, mette a fuoco il mondo dei giovani spesso lanciati senza freni nelle loro deleterie “guerre verbali” via Internet, ed evidenzia una carenza diffusa: la mancanza di una “alfabetizzazione emotiva” che educhi i giovani a riconoscere e controllare le proprie emozioni.
È indubbio che − come ha sottolineato la stessa docente − i sentimenti rappresentano una materia incandescente da gestire: va riconosciuto e ammesso che i giovani, oggi, faticano ad imparare e a capire come “incanalare positivamente le proprie reazioni emotive oggi disancorate da criteri di giudizio che orientano l’agire”. 
Troviamo questo nel grido soffocato di Carolina, ma è forse la stessa cifra che troviamo in altre grida, urlate in modo forte e scomposto: come non pensare agli atti di violenza assurda, che si scatenano in modo folle e privo di qualsiasi altra ratio che non sia una rabbia furibonda che affonda ben oltre al “dove” viene indirizzata? E questo  per camuffare un dolore di fondo di cui si è prigionieri, con un bisogno di “essere forti” che si scontra sempre più spesso con un senso di debolezza, di sproporzione angosciosa”.
Abbiamo smarrito, e i giovani ne soffrono più di noi, la piena consapevolezza del vivere e risulta molto indebolito “quell’istintivo moto del cuore umano che spinge a desiderare il bene di sé e dell’altro invece di rincorrere l’illusione frustrante di un presuntuoso e irraggiungibile dominio sul reale”. 
E quando il reale sfugge alle nostre intenzioni, non si lascia piegare dalla nostra volontà e non risponde ai nostri desideri, allora si scatena una rabbia/angoscia inarrestabile che fuoriesce da noi o, al contrario, rimane dentro di noi. 
Si scatena su chi ci è più vicino, su chi riteniamo colpevole di questa mancata rispondenza del reale alla nostra volontà (e allora diventa furia omicida), nel primo caso. Implode dentro di noi, ci annienta e porta al suicidio, nel secondo. 
A essere negata, in un caso e nell’altro, è la vita, con tutto quel che essa comporta e che inutilmente tenteremo di negare.



Le parti in corsivo sono tratte da un articolo di Laura D’Incalci, su IL SUSSIDIARIO del 12 gennaio 2013.

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