-Interessante - nel senso che ci dà da pensare - l'ultimo libro di Antonio Polito "Contro i papà (Rizzoli, 2012), dove l'autore spiega come e
perché i padri italiani (noi) hanno rovinato i loro figli, pensando di fare il bene di questi ultimi.
Riproponiamo qui di seguito un'intervista pubblicata su Il Sussidiario lo scorso 25 gennaio, che prende avvio ricordando l'editoriale di Antonio Polito pubblicato sul Corriere un anno fa e titolato «Perché proteggiamo (troppo) i nostri figli», scritto in occasione della definizone di "sfigati" usata dal vice-ministro Martone per indicare i fuori-corso attempati e che provocò
un’incredibile ondata di indignazione. Da lì è nata l’idea del libro CONTRO I PAPA'
Lei
scrive che siamo l’Italia dei «papà-orsetto» e che «in nome dei
nostri figli li abbiamo
rovinati».
Cos’è accaduto?
La
nostra generazione, quella dei nati come me negli anni Cinquanta, i
baby boomers, ha avuto un vita facile. Grazie al lavoro dei nostri
padri abbiamo avuto decenni di assoluto benessere, diventando forse
la generazione più benestante della storia dell’umanità. Ci siamo
convinti – noi, padri - che dovessimo a questo punto costruire una
società, un futuro, il più protettivo possibile per i nostri figli,
che potesse garantir loro quello che noi abbiamo avuto.
Non
è una legittima aspirazione?
Certo.
Ma il problema sta nel modo in cui lo abbiamo fatto. Abbiamo
cominciato a rimuovere tutte le presunte asperità dal presente e dal
futuro dei nostri giovani. Li abbiamo coccolati, protetti. I nostri
figli non hanno più trovato in noi qualcuno cui opporsi, e in questo
scontro, crescere, rendendosi indipendenti. Dal 6 politico
all’università facile, fino al lavoro come diritto. Ma il lavoro è
un diritto non meno della salute; diritto al lavoro non vuol dire
diritto a un posto di lavoro. Se il posto è un diritto, tanto vale
aspettare che sia lui ad arrivare da noi, no?
La
generazione dei baby boomers è quella che ha attraversato il ’68,
con il quale lei è molto critico.
Siamo
la prima generazione che ha disobbedito ai padri per obbedire ai
figli. Ci siamo ribellati al padre, abbiamo fatto la rivoluzione
contro la sua autorità, e ora coi nostri figli facciamo appello al
negoziato, alla moral suasion. Abbiamo trasmesso loro il diritto al
benessere, senza nessun dovere connesso.
Può
un padre trasmettere affetti senza trasmettere anche norme?
Secondo
me no. La prima domanda da porsi è: che cosa intendo trasmettere,
come padre? Noi, padri di oggi, concepiamo la paternità come
trasmissione? Anche l’affetto comporta una severità e un rigore.
Un padre affettuoso è un padre che ha un’idea della vita e la
comunica ai suoi figli con la presenza e con l’esempio. L’affetto
non è vuoto, ma pieno di significati. Altrimenti è senza
responsabilità.
Lei
individua nella crisi del padre la chiave di lettura che spiega i
principali problemi del paese. Non è eccessivo?
È
una valutazione che lascio al lettore. È vero, da questo punto di
vista, che il libro è anomalo; ma la prima anomalia è che nel
dibattito pubblico italiano la società e l’individuo sono due
mondi separati. Ci sforziamo di capire la prima con l’economia e la
politica, mentre al secondo riserviamo la cultura; psicologica,
filosofica, letteraria. Perdiamo così di vista il fatto che i
maggiori problemi della nostra società sono figli di grandi
questioni culturali che nascono nella famiglia, nel rapporto tra
genitori e figli. Attribuiamo la colpa o il merito di quello che non
va o che funziona a entità superiori come lo Stato, il governo, la
politica, dimenticando che l’Italia è fatta a nostra immagine e
somiglianza.
Anche
lei definisce i giovani come bamboccioni.
Si
continua a dire che i nostri giovani stanno i casa troppo a lungo
perché non hanno soldi per essere autosufficienti, ma ci sono dati
che dimostrano che più è alto il reddito della famiglia di
appartenenza, più è difficile che i figli taglino il cordone
ombelicale. Vuol dire allora che il problema è culturale prima che
economico. Negli Stati Uniti gli italoamericani sono più bamboccioni
di tutti gli altri gruppi etnici.
È
colpa dei papà se non siamo una società del merito?
In
Italia i padri sono i primi sindacalisti dei propri figli. Dedico un
capitolo al tema delle raccomandazioni o a quello della tolleranza
verso atteggiamenti scorretti come il copiare a scuola: nel padre di
oggi c’è la convinzione che siccome tutti imbrogliano, anche suo
figlio ha il diritto di fare qualcosa che non è corretto, pur di
ristabilire una condizione di parità! Ovvero: «non è colpa mia, ma
gli altri lo fanno e quindi lo faccio anch’io». In una società
dove il merito è stimato, come negli Usa, se gli studenti si vedono
scavalcati da uno che copia sono loro stessi a protestare; in Italia
è legittimo copiare perfino all’esame di maturità. Lo ha detto il
Consiglio di Stato.
Quali
effetti ha, sull’ingresso nel mondo del lavoro, la mentalità
iperprotettiva che lei denuncia?
Innazitutto,
il 38% dei giovani italiani trovano lavoro attraverso la famiglia,
mediante raccomandazioni e conoscenze. Poi non è vero che i nostri
giovani siano più disoccupati degli altri. Quando si dice che c’è
un 33% di giovani disoccupati, non ci si riferisce all’insieme di
chi non lavora ma alla popolazione attiva in quella determinata
fascia di età, pari a circa il 25%. Quel 33 di conseguenza, essendo
relativo a un 25%, si ridimensiona di molto, anzi è in linea con i
numeri pre crisi. Il vero problema non sono i giovani che non trovano
lavoro ma quelli che non lo cercano. I dati dicono che i paesi in cui
è più alto il risparmio familiare e più basso il numero dei figli,
sono quelli dove i figli ritardano di più l’ingresso nel mondo del
lavoro. Aspettano, insomma, tempi migliori, e intanto rimangono in
famiglia. Questo è molto più grave, perché vuol dire non aver
ragioni per alzarsi la mattina.
Si
può imparare di nuovo ad essere padri, recuperare la saggezza che è
andata perduta?
Di
sicuro gli appelli alla responsabilità non servono a nulla. Io credo
che la cosa più importante sia quella di rimettere in gioco noi
stessi: provare a verificare quanto il nostro modo di concepire la
vita è interessante per i nostri figli, sfidarli, opporsi se
necessario; ma non fare il muro di gomma, che è frustrante, perché
uno vi sbatte contro sempre invano. I figli non hanno sempre ragione.
Il coraggio delle nostre idee è il miglior antidoto al pessimismo e
alla rassegnazione, loro e nostra.
Scartato
il «sindacalismo», resta l’autorità.
Ma
se vogliamo essere padri credibili, dobbiamo stare con loro, dedicar
loro il nostro tempo. È come con i compiti a casa: farli al posto
loro è sbagliato, ugualmente non serve a nulla pretendere che il
nostro comando li inchiodi alla sedia. Questo ogni genitore lo può
capire. Se invece ci sediamo al loro fianco,
capiranno che quello che stanno facendo ha un valore. Con i figli
occorre starci, starci e ancora starci.
Antonio
Polito
Inizia
la sua attività giornalistica presso l'Unità. Nel1988 passa a la
Repubblica, di cui resta vice-direttore di Eugenio Scalfari prima e
di Ezio Mauro poi. Nel 2002 lascia la testata per fondare e dirigere
Il Riformista, giornale della sinistra moderata.
Nel
2006, si candida come senatore con la Margherita e viene eletto nella
circoscrizione Campania. Nel 2008, rifiuta di ricandidarsi al Senato
tornando a dirigere "Il Riformista" che aveva lasciato
durante l'esprienza parlamentare.
Il
30 dicembre 2010, in vista di un cambio di proprietà del giornale,
annuncia le sue dimissioni da direttore del Il Riformista. Da gennaio
2011 è editorialista del Corriere della Sera.
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