Figlio di un ebreo polacco superstite di Auschwitz
e poi naturalizzato francese, ha smesso di essere annoverato tra i pensatori
eminenti della sinistra a partire dal 2005, quando - di fronte alla rivolta
delle banlieues parigine - affermò che i disordini erano stati fomentati da
islamici e neri, a prescindere e indipendentemente
dal disagio sociale.
Da allora, il filosofo, che non usa il
computer e rifiuta il cellulare, ha dichiarato guerra al “politicamente
corretto”, cominciando dalla difesa della lingua francese, divenuto uno dei
suoi temi ricorrenti.
La sua critica, sicuramente antimoderna e
fermamente contraria al relativismo culturale, lo ha reso uno dei pensatori più
amati dalla destra intellettuale europea e, in Francia, viene avvicinato spesso
al Front National di Marine Le Pen, anche se da parte sua, Alain Finkielkraut,
definisce “infrequentabili” i leader della destra francese, in quanto affetti
di etnocentrismo, un peccato non certo scuasabile
da chi, come lui, ha radici ebraiche.
Possiamo conoscere il suo ultimo saggio –
non ancora tradotto in italiano – attraverso le recensioni e le interviste che
gli hanno dedicato i maggiori quotidiani e periodici italiani, tra le quali
segnaliamo, come ultima di cui abbiamo notizia, quella di Rodolfo Casadei, sull’ultimo
numero di Tempi.
Anche nel nuovo libro, Finkielkraut
afferma che il disagio e le violenze dei quartieri ad alta concentrazione di
immigrati non derivano dalla povertà e dalla discriminazione: piuttosto, è
necessario prendere atto delle specificità culturali dei nuovi venuti e della
rinuncia del sistema educativo francese a perseguire l’integrazione dei nuovi arrivati.
In questa direzione, il filosofo francese invoca il diritto dei francesi a “non essere così totalmente aperti alla
diversità” come vorrebbero i pensatori e i sociologi post-moderni:
affermazioni, queste, che hanno indotto l’autorevole Le Monde a uscire con il
titolo “Finkielkraut scherza col fuoco”.
Per la prima volta, come anticipato in un
altro suo saggio del 2002, ci troviamo di fronte al fenomeno di comunità di
immigrati che rifiutano l’assimilazione, tanto da rendere certe zone e certi
quartieri come “Territori perduti dallo
Stato” (“Les territoires perdus de la Republique” il titolo del saggio di
allora). E qui parlava, prendendo spunto dalle testimonianze di alcuni
insegnanti delle banlieues, della misoginia, dell’antisemitismo, dell’ostilità
ai valori della Repubblica e persino della francofobia che sono endemici in
quei quartieri.
Nell’intervista a Tempi, Alain Fankielkrut
afferma che “l’Europa è pronta ad
affermare l’universalità dei diritti dell’uomo, a riconoscersi nei valori della
tolleranza e del rispetto, ma essa non assume il suo essere, rifiuta di
concepirsi come una civiltà”.
Accade così che quando si parla di
integrazione, l’Europa “proclama che essa
deve avvenire nei due sensi, cioè che la cultura del Paese o del continente d’accoglienza
non deve avere alcun privilegio su quella dei nuovi arrivati”. In questo
modo, l’Europa “si allontana dalla sua
eredità e non conserva di sé se non ciò che fa di lei una pura apertura”.
Difesa dell’appartenenza ad una comunità
come fattore proprio degli uomini, perché gli uomini “vengono da un qualche luogo, parlano una lingua, hanno una memoria”.
Questo non significa rinunciare ai principi che riguardano l’intera umanità, ma
aver presente che l’intera umanità non è una singola comunità: “Tutti coloro
che pretendono di essere cittadini del mondo sono in realtà dei puri
CONSUMATORI PLANETARI”, funzionali al mondo globalizzato dall’economia, al pari
dell’ormai imperante relativismo culturale, predicato e praticato dall’Occidente.
Se da un lato il filosofo francese è un
forte critico del “politicamente corretto” ora dominante, nelle sue parole non
trova alcun spazio il “politicamente abietto” che porta alla xenofobia e al
nazionalismo sciovinista. Piuttosto, tra le due opposte e, per lui, non
condivisibili posizioni, egli aspira a una terza via: “non c’è niente di
ignobile nel voler guardare in faccia la realtà, tanto meno c’è qualcosa di
ignobile nel chiedere all’Islam di sottomettersi alle leggi della Repubblica,
nel mentre che il politicamente corretto esige, in nome dell’antirazzismo, che
la Repubblica si adatti alle esigenze dell’Islam”.
A tal proposito, nel suo ultimo pamphlet,
Alain Finkielkraut richiama le leggi francesi che proibiscono l’ostentazione di
simboli religiosi in ambito scolastico, che non hanno alcun intento
islamofobico. Anzi, è il caso di ricordrae che “lo Stato francese è stato molto
più duro, molto più intransigente con i cattolici all’epoca dell’anticlericalismo
acceso di quanto non lo sia oggi con i mussulmani… questo deve essere
ricordato. Non si tratta di rompere la tradizione dell’ospitalità: sarebbe
politicamente abietto. Si tratta di dire che l’ospitalità non consiste nell’abolire
se stessi, nel fondersi nell’alterità. Essa consiste nel dare agli altri il
tesoro che si possiede”.
In conclusione (ammesso che si possa concludere, su un tema tanto complesso), dobbiamo ammettere che il troppo "politicamente corretto" ha forse fatto il suo tempo ed è ora di riposizionarci un po', anche per evitare di incorrere in quel "politicamente abietto" (fatto di razzismo e di altro altrettanto grave) che Finkielfraut ci insegna ad evitare.
Tra gli "esempi esemplari" di un politicamente corretto male inteso, seguendo quel che ci dice il filosofo francese, rientra quello di NON fare il presepe a scuola per non offendere chi è di altra religione: perchè mai rinunciare a ciò che è nostro? perchè mai "abolire noi stessi"? anche in considerazione del fatto che nessun mussulmano si è mai sognato di chiedercelo, così come nessun mussulmano ci ha mai chiesto di togliere il Crocefisso dalle nostre aule di scuola...
In conclusione (ammesso che si possa concludere, su un tema tanto complesso), dobbiamo ammettere che il troppo "politicamente corretto" ha forse fatto il suo tempo ed è ora di riposizionarci un po', anche per evitare di incorrere in quel "politicamente abietto" (fatto di razzismo e di altro altrettanto grave) che Finkielfraut ci insegna ad evitare.
Tra gli "esempi esemplari" di un politicamente corretto male inteso, seguendo quel che ci dice il filosofo francese, rientra quello di NON fare il presepe a scuola per non offendere chi è di altra religione: perchè mai rinunciare a ciò che è nostro? perchè mai "abolire noi stessi"? anche in considerazione del fatto che nessun mussulmano si è mai sognato di chiedercelo, così come nessun mussulmano ci ha mai chiesto di togliere il Crocefisso dalle nostre aule di scuola...
Finkielkraut, figlio unico di un superstite di Auschwitz (i cui genitori sono stati deportati ad Auschwitz), il 10 ottobre scorso ha
tenuto il discorso d’addio alla prestigiosa Ecole polytechnique di Parigi, uno
degli istituti di formazione più prestigiosi al mondo dove ha insegnato Scienze
sociali dal 1988.
Membro eminente di una certa Intelligencija parigina, è frequentemente invitato su tutte le emittenti televisive e radiofoniche per la sua capacità di riflessione sulla contemporaneità;
la laicità, il valore della repubblica, la scuola,
la cultura,
gli ebrei e gli ultimi conflitti sul pianeta.
Conosciuto in Italia soprattutto per le
sue posizioni che prendono distanza dal relativismo e dal pensiero debole, espresse per la maggior parte
nel saggio "Occidente contro Occidente" e in numerosi articoli,
Finkielkraut è un pensatore amato in particolar modo dalla destra intellettuale europea.
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