13 gennaio 2014

ospitali e orgogliosi della propria identità

-Un libro e delle riflessioni che vanno decisamente contro il “pensiero debole” e il “relativismo” dei nostri tempi, prendendo la scomoda via che va a cozzare contro il “politicamente corretto”: queste le caratteristiche di “L'identité malheureuse” (L’identità infelice), ultima fatica del filosofo Alain Finkielkraut, in testa da alcune settimane nella classifica dei saggi più venduti in Francia.
Figlio di un ebreo polacco superstite di Auschwitz e poi naturalizzato francese, ha smesso di essere annoverato tra i pensatori eminenti della sinistra a partire dal 2005, quando - di fronte alla rivolta delle banlieues parigine - affermò che i disordini erano stati fomentati da islamici e neri, a prescindere  e indipendentemente dal disagio sociale.

Da allora, il filosofo, che non usa il computer e rifiuta il cellulare, ha dichiarato guerra al “politicamente corretto”, cominciando dalla difesa della lingua francese, divenuto uno dei suoi temi ricorrenti.
La sua critica, sicuramente antimoderna e fermamente contraria al relativismo culturale, lo ha reso uno dei pensatori più amati dalla destra intellettuale europea e, in Francia, viene avvicinato spesso al Front National di Marine Le Pen, anche se da parte sua, Alain Finkielkraut, definisce “infrequentabili” i leader della destra francese, in quanto affetti di etnocentrismo,  un peccato non certo scuasabile da chi, come lui, ha radici ebraiche.
Possiamo conoscere il suo ultimo saggio – non ancora tradotto in italiano – attraverso le recensioni e le interviste che gli hanno dedicato i maggiori quotidiani e periodici italiani, tra le quali segnaliamo, come ultima di cui abbiamo notizia, quella di Rodolfo Casadei, sull’ultimo numero di Tempi.
Anche nel nuovo libro, Finkielkraut afferma che il disagio e le violenze dei quartieri ad alta concentrazione di immigrati non derivano dalla povertà e dalla discriminazione: piuttosto, è necessario prendere atto delle specificità culturali dei nuovi venuti e della rinuncia del sistema educativo francese a perseguire l’integrazione dei nuovi arrivati. In questa direzione, il filosofo francese invoca il diritto dei francesi a “non essere così totalmente aperti alla diversità” come vorrebbero i pensatori e i sociologi post-moderni: affermazioni, queste, che hanno indotto l’autorevole Le Monde a uscire con il titolo “Finkielkraut scherza col fuoco”.
Per la prima volta, come anticipato in un altro suo saggio del 2002, ci troviamo di fronte al fenomeno di comunità di immigrati che rifiutano l’assimilazione, tanto da rendere certe zone e certi quartieri come “Territori perduti dallo Stato” (“Les territoires perdus de la Republique” il titolo del saggio di allora). E qui parlava, prendendo spunto dalle testimonianze di alcuni insegnanti delle banlieues, della misoginia, dell’antisemitismo, dell’ostilità ai valori della Repubblica e persino della francofobia che sono endemici in quei quartieri.
Nell’intervista a Tempi, Alain Fankielkrut afferma che “l’Europa è pronta ad affermare l’universalità dei diritti dell’uomo, a riconoscersi nei valori della tolleranza e del rispetto, ma essa non assume il suo essere, rifiuta di concepirsi come una  civiltà”.
Accade così che quando si parla di integrazione, l’Europa “proclama che essa deve avvenire nei due sensi, cioè che la cultura del Paese o del continente d’accoglienza non deve avere alcun privilegio su quella dei nuovi arrivati”. In questo modo, l’Europa “si allontana dalla sua eredità e non conserva di sé se non ciò che fa di lei una pura apertura”.
Difesa dell’appartenenza ad una comunità come fattore proprio degli uomini, perché gli uomini “vengono da un qualche luogo, parlano una lingua, hanno una memoria”. Questo non significa rinunciare ai principi che riguardano l’intera umanità, ma aver presente che l’intera umanità non è una singola comunità: “Tutti coloro che pretendono di essere cittadini del mondo sono in realtà dei puri CONSUMATORI PLANETARI”, funzionali al mondo globalizzato dall’economia, al pari dell’ormai imperante relativismo culturale, predicato e praticato dall’Occidente.
Se da un lato il filosofo francese è un forte critico del “politicamente corretto” ora dominante, nelle sue parole non trova alcun spazio il “politicamente abietto” che porta alla xenofobia e al nazionalismo sciovinista. Piuttosto, tra le due opposte e, per lui, non condivisibili posizioni, egli aspira a una terza via: “non c’è niente di ignobile nel voler guardare in faccia la realtà, tanto meno c’è qualcosa di ignobile nel chiedere all’Islam di sottomettersi alle leggi della Repubblica, nel mentre che il politicamente corretto esige, in nome dell’antirazzismo, che la Repubblica si adatti alle esigenze dell’Islam”.
A tal proposito, nel suo ultimo pamphlet, Alain Finkielkraut richiama le leggi francesi che proibiscono l’ostentazione di simboli religiosi in ambito scolastico, che non hanno alcun intento islamofobico. Anzi, è il caso di ricordrae che “lo Stato francese è stato molto più duro, molto più intransigente con i cattolici all’epoca dell’anticlericalismo acceso di quanto non lo sia oggi con i mussulmani… questo deve essere ricordato. Non si tratta di rompere la tradizione dell’ospitalità: sarebbe politicamente abietto. Si tratta di dire che l’ospitalità non consiste nell’abolire se stessi, nel fondersi nell’alterità. Essa consiste nel dare agli altri il tesoro che si possiede”. 
In conclusione (ammesso che si possa concludere, su un tema tanto complesso), dobbiamo ammettere che il troppo "politicamente corretto" ha forse fatto il suo tempo ed è ora di riposizionarci un po', anche per evitare di incorrere in quel "politicamente abietto" (fatto di razzismo e di altro altrettanto grave) che Finkielfraut ci insegna ad evitare. 
Tra gli "esempi esemplari" di un politicamente corretto male inteso, seguendo quel che ci dice il filosofo francese, rientra quello di NON fare il presepe a scuola per non offendere chi è di altra religione: perchè mai rinunciare a ciò che è nostro? perchè mai "abolire noi stessi"? anche in considerazione del fatto che nessun mussulmano si è mai sognato di chiedercelo, così come nessun mussulmano ci ha mai chiesto di togliere il Crocefisso dalle nostre aule di scuola...



Finkielkraut, figlio unico di un superstite di Auschwitz (i cui genitori sono stati deportati ad Auschwitz), il 10 ottobre scorso ha tenuto il discorso d’addio alla prestigiosa Ecole polytechnique di Parigi, uno degli istituti di formazione più prestigiosi al mondo dove ha insegnato Scienze sociali dal 1988.
Membro eminente di una certa Intelligencija parigina, è frequentemente invitato su tutte le emittenti televisive e radiofoniche per la sua capacità di riflessione sulla contemporaneità; la laicità, il valore della repubblica, la scuola, la cultura, gli ebrei e gli ultimi conflitti sul pianeta.
Conosciuto in Italia soprattutto per le sue posizioni che prendono distanza dal relativismo e dal pensiero debole, espresse per la maggior parte nel saggio "Occidente contro Occidente" e in numerosi articoli, Finkielkraut è un pensatore amato in particolar modo dalla destra intellettuale europea. 

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