L’inizio del libro è un richiamo stizzito (e ricorrente, si direbbe) del
padre: “Ma dove cazzo sei? Ti ho
telefonato almeno quattro volte, non rispondi mai”
E subito entra con tutto il suo mestiere, la penna abile e colta del Serra
che conosciamo da tanto tempo, con un susseguirsi di figure retoriche anche
ardite e sintassi impegnativa, che fanno quasi venir la voglia di chiudere il
libro prima della fine della prima pagina:
“Il tuo cellulare suona a vuoto, come quello dei mariti adulteri e delle amanti
offese. La sequela interminata degli squilli lascia intendere o la tua attiva
renitenza o la tua soave distrazione: e non so quale sia, dei due “non
rispondo”, il più offensivo.
Per non dire della mia
ansia quando non ti trovo, cioè quasi sempre. Ho imparato a relegarla tra i
miei vizi, non più tra le tue colpe. Non per questo è meno greve da sopportare.
Ogni sirena di ambulanza, ogni riverbero luttuoso dei notiziari scoperchia la
scatola delle mie paure. Vedo motorini schiantati, risse sanguinose, overdosi
fatali, forze dell’ordine impegnate a reprimere qualche baldoria illegale”.
Vale, tuttavia, la pena di reggere lo sforzo e
continuare la lettura di questa sorta di diario/lettera in cui Serra padre si
rivolge direttamente al figlio, al quale confessa pensieri, proponimenti, ansie
di chi si interroga sul proprio ruolo di genitore, unitamente a considerazioni
più generali, storico-sociologiche, relative al rapporto tra generazioni tanto
diverse tra loro e dove guarda alla situazione in cui si trovano a vivere i
giovani d’oggi.
Un padre che si interroga
sul proprio ruolo, che appare oggi meno nitido e certo di un tempo: “Una fragilità materna, non preventivata,
rammollisce il mio aplomb virile. Mi rendo conto di sommare le due debolezze:
la smania protettiva della Madre, le pretese di rettitudine del Padre. Mi vedo
soccorrerti e contemporaneamente sgridarti, caricatura schizofrenica
dell’autorità”.
A render pienamente conto
della vena materna del Serra-genitore sono le pagine dedicate a una certa
trasandatezza del figlio verso le cose di casa, a cominciare dal tappeto dell’ingresso
(“Le tracce della tua presenza sono
inconfondibili. Il tappeto kilim davanti all’ingresso è una piccola cordigliera
di pieghe e avvallamenti. La sua onesta forma rettangolare, quando entri o esci
di casa, non ha scampo: è stravolta dal calco delle tue enormi scarpe, a ogni
transito corrisponde un’alterazione della forma originaria”) violentato
dalle snakers del figlio (“tu e la tua
tribù avete abolito sandali e mocassini in favore di quegli scafi di gomma
imbottita che vi ingoiano i piedi per tutto l’anno, nella neve fradicia come
nella sabbia arroventata”).
Si continua con le
lamentazioni del padre per le tracce lasciate dal figlio nei vari angoli della
casa, a cominciare dal bagno, senza trascurare particolari anche poco
edificanti,, come gli sputi di dentifricio nel lavandino e le “righe di merda” che rimangono al water.
Se così stanno le cose, se tanta è l’attenzione all’ordine, alla pulizia e al
decoro, il Serra-genitore non ne esce bene, in quanto sembra una sorta di
parodia dello stereotipo della casalinga frustrata o della suocera petulante…
A risollevare il tono del
libro, è la sincerità con cui il genitore sa mettersi sotto esame, senza fare
sconto alcuno alle sue debolezze e alle sue incertezze, che sono poi quelle di
un’intera generazione: «Riconosco che di tutte le tradizionali attitudini del padre
– stabilire regole, rimproverare, punire, disciplinare – non sono un
convincente interprete. Le volte che tento di riportare ordine, sottolineare
regole, sento di avere il tono incerto dell’improvvisatore, non il tono
autorevole di chi è sicuro del proprio ruolo. Sento di sembrare uno che si è
ricordato all’improvviso, costretto dall’emergenza, che avrebbe avuto il
compito di governare. E non lo ha fatto. E simula, come il più ipocrita e il
più inetto dei politici, di avere un programma di governo affastellando alla
rinfusa mozziconi di regole, minacce improbabili, ricatti sentimentali, con la
voce che oscilla dal borbottio lugubre all’acuto nevrastenico. Nel corso di questi
concitati e per fortuna rari comizi domestici, dubito di almeno la metà delle
cose che dico.”
A dare il titolo al libro
è la predilezione del figlio a fare del divano il proprio “habitat prediletto”, dove “vivi sdraiato”.
La comunicazione verbale
tra padre e figlio è la grande assente in queste pagine, dove il
Serra-scrittore-genitore continua nell’analisi meticolosa di usi e costumi di
questo diciottenne appartenente alla nuova tribù dei multitasking: «Eri sdraiato sul divano, dentro un accrocco spiegazzato di
cuscini e briciole. Annoto con zelo scientifico, e nessun ricamo letterario.
Sopra la pancia tenevi appoggiato il computer acceso.
Con la mano destra digitavi qualcosa sullo Smartphone. La
sinistra, semi-inerte, reggeva con due dita, per un lembo, un lacero
testo di chimica, a
evitare che sprofondasse per sempre nella tenebrosa intercapedine tra lo
schienale e i cuscini, laddove una volta ritrovai anche un würstel
crudo, uno dei tuoi alimenti prediletti. La televisione era
accesa, a volume altissimo, su una serie americana nella quale due fratelli
obesi, con un lessico rudimentale, spiegavano come si bonifica una villetta dai
ratti. Alle orecchie tenevi le cuffiette, collegate all’iPod occultato in qualche anfratto: è
possibile, dunque, che tu stessi anche ascoltando musica».
Nella prima parte del libro predomina, potremmo dire, la fase critica
verso le nuove generazioni e il figlio che ad esse appartiene, visti come un
qualcosa di funzionale alle esigenze della società consumistica («Tu sei il
consumista perfetto. Il sogno di ogni gerarca o funzionario della presente
dittatura, che per tenere in piedi le sue mura deliranti ha bisogno che ognuno
bruci più di quanto lo scalda...»),
come se le generazioni precedenti si siano contraddistinte per morigeratezza
nei consumi e autonomia di giudizio nelle scelte.
Le distanze tra padre e figlio
sembrano farsi insormontabili in occasione dell’uscita nelle Langhe per la
vendemmia, vissuta con entusiasmo e trasporto d’altri tempi da Michele Serra e
dai suoi amici che lo aiutano nel lavoro; subita come una sorta di “obbligo di
famiglia” da parte del figlio, che, non per niente, si alza a mezzogiorno e non
si fa minimamente coinvolgere dall’atmosfera festaiola e lavorativa che anima
gli adulti.
E i giudizi sui giovani assumono
qui toni quasi impietosi e senza possibilità di appello: “Sono sdraiati,
incapaci di portare a termine qualsivoglia lavoro. Senza chiudere mai il cerchio delle
loro vite, aprono gli armadi, i cassetti, le porte, senza richiuderli, tirano
fuori una bottiglia dal frigo senza riporla, aprono mille finestre senza mai
uscirne”.
Michele Serra sa bene che le cose NON POSSONO stare semplicemente così e
illuminanti sono le riflessioni che ci offre per spiegare ciò che agli adulti
appare come indifferenza e abulia da parte delle nuove generazioni: “Dopotutto siete arrivati in un mondo che ha già
esaurito ogni esperienza, digerito ogni cibo, cantato ogni canzone, letto e
scritto ogni libro, combattuto ogni guerra, compiuto ogni viaggio, arredato
ogni casa, inventato e poi smontato ogni idea...e pretendere, in questo mondo
usato, di sentirvi esclamare "che bello!", di vedervi proseguire
entusiasti lungo strade già consumate da milioni di passi, questo no, non ce lo
volete - potete, dovete - concedere. Il poco che riuscite a rubare a un mondo
già saccheggiato, ve lo tenete stretto. Non ce lo dite, "questo mi
piace", per paura che sia già piaciuto anche a noi. Che vi venga rubato
anche quello”.
A chiudere il racconto/lettera è la gita che i due
protagonisti fanno sul Colle della Nasca. Anche qui il figlio deve sentire le
prediche paterne sull’abbigliamento poco adatto e anche su come si mette il
berretto: “Te lo sei messo con la visiera
al contrario, non ho potuto evitare di farti notare che la funzione della
visiera è riparare gli occhi dal sole». «Io invece mi riparo la nuca»
risponde il figlio, che sale veloce, più agile del padre, che lo chiama
spaventato quando non lo vede più vicino a se’. A chiusura, il figlio risponde
al richiamo paterno, si ferma ad aspettare il genitore e lo accoglie con un bel
sorriso che allontana tutte le incomprensioni e le difficoltà che abbaimo
conosciuto nelle pagine precedenti.
Un libro forse fin troppo “costruito” e non così importante come certa critica
compiacente vorrebbe farci credere. Non ne esce certamente bene il Serra-genitore - di estrazione borghese post-sessantotto - troppo preso dal desiderio di mettere tutto bene in ordine nella sua bella e linda casetta e che pretende di suscitare l'entusiasmo del figlio con l'improbabile vendemmia nelle Langhe. Il libro si salva per la
magnanimità con cui, verso la fine, riesce
a guardare, comprendere e
accettare quelli che prima sembravano i limiti dei giovani d’oggi e per come tratteggia la difficoltà che si incontra a essere giovani oggi, quando sembra che gli adulti che ti stanno a fianco abbiano già fatto tutto prima di te...
Nella parte centrale del libro troviamo una sorta di digressione
dedicata alla guerra prossima-ventura che sarà combattuta tra i giovani e i
vecchi, quale esito finale delle asimmetrie demografiche che interessano il
nostro mondo. SI tratterebbe, nella finzione narrativa, di un episodio del nuovo romanzo cui sta lavorando
genitore-scrittore, intitolato LA GRANDE GUERRA FINALE, “quella tra Vecchi e Giovani, che dà il
titolo a un romanzo grandioso e definitivo al quale sto lavorando da parecchio
tempo”.
“Intorno alla metà di questo secolo, secondo tutte le previsioni, la
classe dominante, in Occidente, saranno i vecchi. A meno di invasioni vincenti
dei popoli poveri (poveri e giovani saranno, anzi già sono, ormai sinonimi), le
persone dai settantacinque in su saranno più della metà della popolazione.
Ripeto e sottolineo: più della metà della popolazione. Miliardi di dentiere
batteranno il ritmo del tempo residuo, miliardi di pannoloni assorbiranno le
ultime acque di corpi disseccati. Un’umanità sfinita e transennata cercherà di
protrarre oltre ogni logico limite il proprio potere. Ho qualche probabilità di
farne parte, se tengo in ordine le mie arterie, la smetto di bere e fumare,
evito i formaggi”.
A risolvere questa lunga guerra tra
contrapposte generazioni sarà Brenno Alzheimer, l’eroe della nuova opera che
tradirà la sua parte, quella dei vecchi, e “simpatizza
con il nemico, e trama in gran segreto per l’affermazione dei Giovani, fino a
immolarsi per la causa. Scoperto, viene condannato alla fucilazione ma riesce a
morire prima dell’esecuzione sospendendo i farmaci contro l’ipertensione”.
Nessun commento:
Posta un commento