11 ottobre 2013

Università USA: fine di un mito?


--Interessante articolo, a firma di Thomas Frank - ripreso e pubblicato in italiano su Internazionale 1019 del 3 ottobre – in cui l’autore rivede e, potremmo dire, azzera il mito delle università americane come luoghi d’eccellenza dai quali, pagando sostanziose rette, a costo di sacrifici non indifferenti per le famiglie e di sottoscrizione di prestiti assai onerosi, sia automatico accedere a professioni e carriere ben retribuite e invidiabili.
Niente di tutto ciò, secondo l’autore che, anzi, non esita a parlare di BOLLA DELL’ISTRUZIONE, destinata, come già accaduto con le altre “bolle” a scoppiare, perché, conclude l’articolo, “il sistema non può andare avanti così. È palesemente una frode a tutti i livelli, e fa troppe vittime. Uno di questi giorni arriverà a un punto critico, come è successo per la Enron, la new economy e la bolla immobiliare…”

Il “mito” delle università americane è duro a  morire e risale a quando “la gente ha iniziato a pensare che una laurea garantisse l’accesso alla classe media: avremmo creato una repubblica modello di cittadini-studenti, che grazie ai loro successi accademici avrebbero raggiunto i livelli più alti del capitalismo aziendale.”
La stessa Casa Bianca contribuisce ancora oggi a sostenere questo assunto, quando sul proprio sito afferma che la laurea è un “prerequisito per tutti i lavori del ventunesimo secolo” e lo stesso Presidente Obama fa coincidere l’istruzione con la mobilità sociale, secondo l’equazione “più istruzione uguale più successo”.
E così, continua l’autore, “il sogno si perpetua” e in molti pensano e sostengono che l’istruzione sia l’unica cosa che potrà salvarci quando dovremo affrontare, tanto per dire, la concorrenza diretta di Cina, Vietnam e Filippine. A sostegno di ciò, affermano a spada tratta gli economisti, vi è l’evidenza che “le disparità di reddito sono legate ai livelli di istruzione” e sarebbe necessario studiare sempre di più, per mantenere il primato acquisito e non farsi superare dai Paesi emergenti. Anche se, a conti fatti e guardando in faccia la realtà, “nessuno sa esattamente che tipo di istruzione potrebbe salvarci”
E’ certamente vero che, guadandoci attorno, possiamo constatare che le persone che sono andate all’università hanno un reddito più alto e da qui deriva la convinzione che “mandando più persone al college, il paese sarà più ricco” e se prendi una laurea in una “buona università” i tuoi sogni si realizzeranno.
Al contrario, guardando la realtà, dobbiamo riconoscere che, almeno in America, “le grandi università sono cresciute per soddisfare le richieste delle imprese, non per costruire la classe media” e le stesse università si sono trasformate in aziende enormi e iper-strutturate e, in quanto tali, tendono a massimizzare il profitto come propria mission e prima di ogni altra cosa.
Anche l’alto costo delle rette rientra in quest’ottica aziendale, tanto che molte delle più blasonate università, secondo T. Frank, avrebbero “aumentato le tasse portandole a livelli stratosferici senza motivo, approfittando della strana credenza popolare secondo cui il prezzo è indice di qualità”.
Siamo solitamente portati a credere che più una cosa è costosa e più elevato è il suo valore, al punto che “non è possibile togliere dalla testa della gente questa idea del rapporto tra prezzo e qualità, quindi l’università diventa inevitabilmente un articolo di lusso, come un capo di Armani da portare per tutta la vita che costa una fortuna ma non ha nessun valore intrinseco.”
Ecco allora che famiglie e studenti non esitano a indebitarsi pur di poter sostenere le elevate rette delle prestigiose università americane (che possono variare dai 20 ai 60.000 dollari l’anno) e questo nella assoluta incertezza, una volta conseguita la laurea, di essere poi in grado di recuperare le somme investite. Anche in considerazione dei profondi cambiamenti economici degli ultimi anni e del profondo modificarsi della struttura produttiva e organizzativa delle grandi aziende e delle multinazionali.
Se è vero che i laureati del passato hanno trovato posti di lavoro ben retribuiti, non è per nulla scontato che altrettanto accada ai nuovi laureati: guardare alle performance del passato per stabilire le nostre strategie per il futuro” è il classico errore che facciamo come investitori in titoli azionari.
Abbagliati da ciò che è accaduto alle generazioni precedenti, dunque, e senza tener conto delle reali prospettive che si aprono davanti a loro per gli anni a venire, studenti e familiari non esitano a spendere e le università di questo approfittano, alzando il costo delle rette al limite massimo di sostenibilità,  tanto da poter affermare che “L’ingenuo studente americano è diventato una mucca da mungere” e, in considerazione delle scarse prospettive occupazionali e retributive che si prospettano, gli studenti dei college americani appaiono come “agnelli che trottano allegramente
verso il macello”.
A corollario di questa situazione complessiva vi è anche, sempre secondo l’autore dell’articolo in esame, la deprofessionalizzazione del corpo docente, che può essere vista come una “tragedia che va avanti da tempo e diventa ogni anno più triste, dato che insegnare all’università è sempre più un’occupazione a tempo determinato, senza indennità accessorie e senza sicurezza di continuità”.
Altro che il mito del professore del college americano: questi professori proletari, che spesso guadagnano meno del salario minimo, “costituiscono ormai i tre quarti del corpo docente delle prestigiose e follemente costose università statunitensi”.
Qualche ombra, dunque, sul sistema delle università americane, rimane dopo aver letto questo articolo. Anche se tutto ciò non deve far dimenticare le eccellenze che ancora vengono “prodotte” dai college più prestigiosi. Una dose di sano realismo, anche quando si tratta della scelta dell’università e del percorso di studi non fa certo male a nessuno ed è bene prestare attenzione anche alle voci critiche che si distinguono e diversificano rispetto ai plausi unanimi e, magari, interessati, che si alzano da tutte le altre parti.

Thomas Frank è uno scrittore e
giornalista statunitense. Scrive una rubrica
su Harper’s. Il suo ultimo libro è Pity the
billionaire (Picador 2011).

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