--Interessante articolo, a firma di Thomas Frank - ripreso e pubblicato in italiano su Internazionale 1019 del 3 ottobre – in cui l’autore rivede e, potremmo dire, azzera il mito delle università americane come luoghi d’eccellenza dai quali, pagando sostanziose rette, a costo di sacrifici non indifferenti per le famiglie e di sottoscrizione di prestiti assai onerosi, sia automatico accedere a professioni e carriere ben retribuite e invidiabili.
Niente di tutto ciò, secondo l’autore che, anzi, non esita a parlare di BOLLA DELL’ISTRUZIONE, destinata, come già accaduto con le altre “bolle” a scoppiare, perché, conclude l’articolo, “il sistema non può andare avanti così. È palesemente una frode a tutti i livelli, e fa troppe vittime. Uno di questi giorni arriverà a un punto critico, come è successo per la Enron, la new economy e la bolla immobiliare…”
Il “mito” delle università americane è
duro a morire e risale a quando “la gente ha iniziato a pensare che una
laurea garantisse l’accesso alla classe media: avremmo creato una repubblica
modello di cittadini-studenti, che grazie ai loro successi accademici avrebbero
raggiunto i livelli più alti del capitalismo aziendale.”
La stessa
Casa Bianca contribuisce ancora oggi a sostenere questo assunto, quando sul
proprio sito afferma che la laurea è un “prerequisito per tutti i lavori del
ventunesimo secolo” e lo stesso Presidente Obama fa coincidere l’istruzione con
la mobilità sociale, secondo l’equazione “più istruzione uguale più successo”.
E così, continua l’autore, “il sogno si
perpetua” e in molti pensano e sostengono che l’istruzione sia l’unica cosa che
potrà salvarci quando dovremo affrontare, tanto per dire, la concorrenza
diretta di Cina, Vietnam e Filippine. A sostegno di ciò, affermano a spada
tratta gli economisti, vi è l’evidenza che “le
disparità di reddito sono legate ai livelli di istruzione” e sarebbe necessario
studiare sempre di più, per mantenere il primato acquisito e non farsi superare
dai Paesi emergenti. Anche se, a conti fatti e guardando in faccia la realtà, “nessuno
sa esattamente che tipo di istruzione potrebbe salvarci”
E’
certamente vero che, guadandoci attorno, possiamo constatare che le persone che
sono andate all’università hanno un reddito più alto e da qui deriva la
convinzione che “mandando più persone al college, il paese sarà più ricco” e se prendi una laurea in una “buona
università” i tuoi sogni si realizzeranno.
Al contrario, guardando la realtà, dobbiamo
riconoscere che, almeno in America, “le grandi università sono cresciute per
soddisfare le richieste delle imprese, non per costruire la classe media” e le
stesse università si sono trasformate in aziende enormi e iper-strutturate e,
in quanto tali, tendono a massimizzare il profitto come propria mission e prima
di ogni altra cosa.
Anche l’alto costo delle rette rientra
in quest’ottica aziendale, tanto che molte delle più blasonate università, secondo
T. Frank, avrebbero “aumentato le tasse portandole a livelli stratosferici senza motivo,
approfittando della strana credenza popolare secondo cui il prezzo è indice di
qualità”.
Siamo solitamente portati a credere che
più una cosa è costosa e più elevato è il suo valore, al punto che “non è
possibile togliere dalla testa della gente questa idea del rapporto tra prezzo
e qualità, quindi l’università diventa inevitabilmente un articolo di lusso, come un capo di Armani da portare per tutta
la vita che costa una fortuna ma non ha nessun valore intrinseco.”
Ecco allora
che famiglie e studenti non esitano a indebitarsi pur di poter sostenere le
elevate rette delle prestigiose università americane (che possono variare dai
20 ai 60.000 dollari l’anno) e questo nella assoluta incertezza, una volta
conseguita la laurea, di essere poi in grado di recuperare le somme investite. Anche
in considerazione dei profondi cambiamenti economici degli ultimi anni e del
profondo modificarsi della struttura produttiva e organizzativa delle grandi
aziende e delle multinazionali.
Se è vero
che i laureati del passato hanno trovato posti di lavoro ben retribuiti, non è
per nulla scontato che altrettanto accada ai nuovi laureati: guardare alle
performance del passato per stabilire le nostre strategie per il futuro” è il
classico errore che facciamo come investitori in titoli azionari.
Abbagliati
da ciò che è accaduto alle generazioni precedenti, dunque, e senza tener conto
delle reali prospettive che si aprono davanti a loro per gli anni a venire, studenti
e familiari non esitano a spendere e le università di questo approfittano,
alzando il costo delle rette al limite massimo di sostenibilità, tanto da poter affermare che “L’ingenuo
studente americano è diventato una mucca da mungere” e, in
considerazione delle scarse prospettive occupazionali e retributive che si
prospettano, gli studenti dei college americani appaiono come “agnelli
che trottano allegramente
verso il macello”.
A corollario di questa situazione
complessiva vi è anche, sempre secondo l’autore dell’articolo in esame, la deprofessionalizzazione del corpo docente, che
può essere vista come una “tragedia che va avanti da tempo e diventa
ogni anno più triste, dato che insegnare all’università è sempre più un’occupazione
a tempo determinato, senza indennità accessorie e senza sicurezza di continuità”.
Altro che il mito del professore del
college americano: questi professori
proletari, che spesso guadagnano meno del salario minimo, “costituiscono ormai i tre quarti del corpo docente delle prestigiose e
follemente costose università statunitensi”.
Qualche ombra, dunque, sul sistema delle
università americane, rimane dopo aver letto questo articolo. Anche se tutto
ciò non deve far dimenticare le eccellenze che ancora vengono “prodotte” dai
college più prestigiosi. Una dose di sano realismo, anche quando si tratta
della scelta dell’università e del percorso di studi non fa certo male a nessuno
ed è bene prestare attenzione anche alle voci critiche che si distinguono e
diversificano rispetto ai plausi unanimi e, magari, interessati, che si alzano
da tutte le altre parti.
Thomas
Frank è uno scrittore e
giornalista
statunitense. Scrive una rubrica
su
Harper’s. Il suo ultimo libro è Pity
the
billionaire (Picador
2011).
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