16 settembre 2013

Ancora sui (nostri) dati on line

--Il tema che potremmo chiamare “IL DESTINO DEI NOSTRI DATI ON LINE” comincia a far capolino anche sulla stampa ufficiale e diffusa e non è più soltanto argomento per pochi visionari come J. Assange e soci.

Basti vedere il Corriere di giovedì 12 settembre, che in prima pagina pubblica “Le nostre chiacchiere resteranno in Rete a imperitura vergogna”, a firma della sempre brava Laura Rodotà e dedica largo spazio al tema a pag. 27, con un articolo più tecnico, scritto da Greta Sclaunich.
In buona sostanza, ci viene detto che TUTTO quello che è stato cinquettato in questi anni su Twitter è stato anche rigorosamente registrato e archiviato in capienti server. Ora, grazie a TOPSY, MOTORE DI RICERCA CHE NAVIGA ALL’INTERNO DEI SERVER DI TWEETER, OLTRE TRECENTO MILIARDI DI TWETT SONO DA ORA INDICIZZABILI PER AUTORE, DATA, LUOGO, ARGOMENTO E CHIUNQUE PUO’ CONOSCERE CIO’ CHE CIASCUNO DI NOI HA CINQUETTATO DAL 2006 IN POI. (vedi http://topsy.com/)

In sostanza, dobbiamo essere consapevoli che “La sconfinata marea di fesserie - con qualche occasionale perla - che ognuno di noi negli anni produceva chiacchierando al bar, spettegolando alla macchinetta del caffè, facendo la spesa al mercato, si è ora massicciamente spostata sui social network” e da questi sarà conservata per sempre e sarà probabilmente per sempre accessibile a tutti, “a nostra imperitura vergogna”, visto che Twitter conserva in copia tutti i nostri tweet cancellati (casa che fa anche Facebook con quel che vi postiamo) 
Certamente, possiamo tranquillizzarci pensando che di quel che pensiamo e di quel che diciamo on line, non importi a nessuno, fatti salvi i pochi o tanti nostri amici e questo è vero come dato statistico. Allo stesso tempo, dobbiamo renderci conto che un motore di ricerca come Topsy serve per analizzare e filtrare i flussi di notizie che pubblichiamo sui social network e queste notizie possono essere estratte e messe a disposizione di datori di lavoro che vogliono sapere se assumerci o licenziarci, di assicurazioni che intendono valutare se assicurarci, di non meglio definite imprese che possono così sapere meglio cosa possono venderci.
Argomento simile in copertina del penultimo numero di Internazionale, in cui troviamo un interessante articolo apparso sul tedesco “Frankfurter Allgemeine Zeitung”
Il 27 agosto Facebook ha pubblicato i dati sulle richieste di accesso al materiale degli utenti da parte di 74 governi di tutto il mondo nei primi sei mesi del 2013.
Si registrano circa 12.000 richieste e oltre 20.000 account sono stati oggetto di controllo negli USA; intorno alle 2.000 richieste per altrettanti account controllati si registrano in soli sei mesi in Paesi come Gran Bretagna, Germania e Francia; 1.705 richieste e 2.306 account messi sotto controllo in Italia, sempre nei primi sei mesi di quest’anno.
Anche questa volta abbiamo una conferma circa la possibilità – per organismi di sicurezza o per altri soggetti – di disporre di tutto ciò che viene pubblicato sui social network e anche di ciò che facciamo/vediamo/navighiamo quando siamo on-line e questo grazie al fatto che le tecnologie digitali “sono riuscite a convergere sull’opzione meno sicura e più facile da sorvegliare”.
Quando la Microsoft e le altre aziende a larga diffusione mondiale cominciano a realizzare un software progettato per essere vulnerabile, incoraggiano i già vastissimi piani di spionaggio dei governi autoritari”.
Certamente la possibilità di esercitare controlli nella rete risponde anche alle esigenze di sicurezza nei Paesi democratici, tanto da consentire forse (in casi davvero fortunati ed eccezionali) la cattura di terroristi prima che compiano un attentato. Ma dobbiamo considerare che questa possibilità può essere usata da governi autoritari e anche per controllare eventuali dissidenti, con quel che ciò significa per la libertà e la democrazia.
Quanto sopra vale per i dati riguardanti il singolo cittadino e assume contorni preoccupanti soprattutto nel caso di regimi autoritari, mentre possiamo tranquillizzarci pensando che in regimi democratici queste possibilità vengano utilizzate solo per fini nobili, come quello di rintracciare terroristi o simili.
Diverso il panorama che si intravede per quanto riguara, invece, i cosiddetti BIG DATA, cioè la massa enorme di dati alfanumerici che vengono raccolti e stoccati e dai quali si possono ricavare importanti e interessanti informazioni per gli operatori economici (ma anche, a ben guardare, per gli attori della politica, ma qui si apre un altro scenario).
Un interrogativo che ci riguarda tutti, può essere il seguente: “Cosa succederà tra cinque anni, quando tutti gli oggetti e i dispositivi diventeranno smart, cioè avranno dei sensori avanzati e poco costosi, e saranno collegati tra loro e con internet?”
In buona sostanza, è oggi possibile inserire microchip negli oggetti più comuni e già durante la produzione e a costi assolutamente trascurabili, in modo che possano essere raccolti e inviati i dati riguardanti la posizione, i movimenti, l’uso che ne viene fatto.
Non si tratta di un programma solo futuribile, in quanto “molti oggetti di questo tipo sono già in commercio, e molti altri lo saranno presto: forchette smart che misurano la velocità con cui mangiamo, spazzolini smart che controllano quante volte ci laviamo i denti, scarpe smart che ci dicono quando sono consumate, ombrelli smart che vanno online per sapere se pioverà e ci ricordano di prenderli quando stiamo per uscire di casa. E poi, naturalmente, c’è lo smartphone che abbiamo in tasca e, presto, ci saranno gli occhiali di Google che porteremo sul naso.”
Ecco allora che basterà “raccogliere informazioni da diversi oggetti di questo tipo e metterle insieme per trarre le stesse deduzioni e previsioni che l’Nsa ottiene sorvegliando le nostre email o i tabulati telefonici. In altri termini, l’Nsa può sapere dove ci troviamo controllando il nostro cellulare oppure ottenendo dati dalle scarpe smart o dall’ombrello intelligente”
E buonanotte a tutto ciò che noi possiamo intendere per “privacy”.
Pensiamo, ad esempio, a quanto avviene già oggi con i servizi di posta elettronica e con G-mail in particolare, che ci viene graziosamente offerto gratuitamente: in qualità di consumatori/fruitori non abbiamo nulla da ridire se l’algoritmo di Google setaccia le nostre email per presentarci annunci pubblicitari mirati. È questa pubblicità personalizzata, che si basa sull’analisi e la classificazione immediata e automatica, a mantenere gratuito il costoso sistema di posta elettronica di Google”.
Certamente, è proprio in base a una sorta di tacito accordo, in base al quale Google può usare un algoritmo per analizzare le nostre email e venderci annunci pubblicitari mirati, a rendere le nostre email gratuite e allo stesso tempo accessibili all’Nsa.
Google non avrebbe problemi a crittografare i nostri messaggi in modo che i suoi stessi algoritmi non riescano a decifrarli, privando se stesso e l’Nsa di dati preziosi. Ma in questo caso non potrebbe offrirci un servizio gratuito, e chi ne sarebbe contento?
In ultima analisi: noi accettiamo – più o meno consapevolmente – di pagare un servizio che ci viene messo a disposizione mediante i nostri dati, che hanno una precisa valenza ai fini economici: raccogliendo e disponendo dei dati di milioni di utenti, Google può vendere servizi di pubblicità mirata alle aziende produttrici di beni e servizi.
Questo è quanto accade ora con il servizio di posta elettronica, ma “quando i nostri dispositivi e altri oggetti analogici saranno diventati smart, il modello di Gmail si difonderà in ogni settore. Una serie di imprese commerciali ci fornirà oggetti e dispositivi gratuiti o con un prezzo pari solo a una piccola parte del loro costo reale. In altri termini, il nostro spazzolino da denti intelligente sarà gratis, ma in cambio accetteremo che raccolga dati su come lo usiamo. Saranno questi dati a finanziare lo spazzolino. Oppure, per oggetti con schermi e altoparlanti, potremo vedere o sentire una pubblicità personalizzata che si basa sull’uso che ne facciamo, e sarà la pubblicità a coprire i costi”.

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