Basti vedere il Corriere di
giovedì 12 settembre, che in prima pagina pubblica “Le nostre chiacchiere
resteranno in Rete a imperitura vergogna”, a firma della sempre brava
Laura Rodotà e dedica largo spazio al tema a pag. 27, con un articolo più
tecnico, scritto da Greta Sclaunich.
In buona sostanza, ci viene detto
che TUTTO quello che è stato cinquettato in questi anni su Twitter è stato
anche rigorosamente registrato e archiviato in capienti server. Ora, grazie a TOPSY, MOTORE DI RICERCA CHE NAVIGA ALL’INTERNO DEI SERVER DI TWEETER, OLTRE
TRECENTO MILIARDI DI TWETT SONO DA ORA INDICIZZABILI PER AUTORE, DATA, LUOGO,
ARGOMENTO E CHIUNQUE PUO’ CONOSCERE CIO’ CHE CIASCUNO DI NOI HA CINQUETTATO DAL
2006 IN POI. (vedi http://topsy.com/)
In
sostanza, dobbiamo essere consapevoli che “La
sconfinata marea di fesserie - con qualche occasionale perla - che ognuno di
noi negli anni produceva chiacchierando al bar, spettegolando alla macchinetta
del caffè, facendo la spesa al mercato, si è ora massicciamente spostata sui
social network” e da questi sarà conservata per sempre e sarà probabilmente
per sempre accessibile a tutti, “a
nostra imperitura vergogna”, visto che
Twitter conserva in copia tutti i nostri tweet cancellati (casa che fa
anche Facebook con quel che vi postiamo)
Certamente,
possiamo tranquillizzarci pensando che di quel che pensiamo e di quel che
diciamo on line, non importi a nessuno, fatti salvi i pochi o tanti nostri
amici e questo è vero come dato statistico. Allo stesso tempo, dobbiamo
renderci conto che un motore di ricerca come Topsy serve per analizzare e filtrare
i flussi di notizie che pubblichiamo sui social network e queste notizie
possono essere estratte e messe a disposizione di datori di lavoro che vogliono
sapere se assumerci o licenziarci, di assicurazioni che intendono valutare se
assicurarci, di non meglio definite imprese che possono così sapere meglio cosa
possono venderci.
Argomento simile in copertina del penultimo numero di
Internazionale, in cui troviamo un interessante articolo apparso sul tedesco “Frankfurter Allgemeine Zeitung”
Il 27 agosto
Facebook ha pubblicato i dati sulle richieste di accesso al materiale degli utenti
da parte di 74 governi di tutto il mondo nei primi sei mesi del 2013.
Si registrano circa 12.000 richieste e oltre 20.000 account sono stati oggetto
di controllo negli USA; intorno alle 2.000 richieste per altrettanti account
controllati si registrano in soli sei mesi in Paesi come Gran Bretagna,
Germania e Francia; 1.705 richieste e 2.306 account messi sotto controllo in
Italia, sempre nei primi sei mesi di quest’anno.
Anche questa volta abbiamo una conferma circa la possibilità – per
organismi di sicurezza o per altri soggetti – di disporre di tutto ciò che
viene pubblicato sui social network e anche di ciò che
facciamo/vediamo/navighiamo quando siamo on-line e questo grazie al fatto che le
tecnologie digitali “sono riuscite a convergere
sull’opzione meno sicura e più facile da sorvegliare”.
Quando la
Microsoft e le altre aziende a larga diffusione mondiale “cominciano a realizzare un software progettato per essere vulnerabile,
incoraggiano i già vastissimi piani di spionaggio dei governi autoritari”.
Certamente la possibilità di esercitare controlli nella rete risponde
anche alle esigenze di sicurezza nei Paesi democratici, tanto da consentire
forse (in casi davvero fortunati ed eccezionali) la cattura di terroristi prima
che compiano un attentato. Ma dobbiamo considerare che questa possibilità può
essere usata da governi autoritari e anche per controllare eventuali
dissidenti, con quel che ciò significa per la libertà e la democrazia.
Quanto sopra vale per i dati riguardanti il singolo cittadino e assume
contorni preoccupanti soprattutto nel caso di regimi autoritari, mentre
possiamo tranquillizzarci pensando che in regimi democratici queste possibilità
vengano utilizzate solo per fini nobili, come quello di rintracciare terroristi
o simili.
Diverso il panorama che si intravede per quanto riguara, invece, i
cosiddetti BIG DATA, cioè la massa enorme di dati alfanumerici che vengono
raccolti e stoccati e dai quali si possono ricavare importanti e interessanti
informazioni per gli operatori economici (ma anche, a ben guardare, per gli
attori della politica, ma qui si apre un altro scenario).
Un interrogativo che ci riguarda tutti, può essere il seguente: “Cosa
succederà tra cinque anni, quando tutti gli oggetti e i dispositivi
diventeranno smart, cioè avranno
dei sensori avanzati e poco costosi, e saranno collegati tra loro e con
internet?”
In buona sostanza, è oggi
possibile inserire microchip negli oggetti più comuni e già durante la
produzione e a costi assolutamente trascurabili, in modo che possano essere
raccolti e inviati i dati riguardanti la posizione, i movimenti, l’uso che ne
viene fatto.
Non si tratta di un programma solo futuribile, in quanto “molti oggetti di questo tipo sono già in
commercio, e molti altri lo saranno presto: forchette smart che misurano la
velocità con cui mangiamo, spazzolini smart che controllano quante volte ci
laviamo i denti, scarpe smart che ci dicono quando sono consumate, ombrelli smart
che vanno online per sapere se pioverà e ci ricordano di prenderli quando stiamo
per uscire di casa. E poi, naturalmente, c’è lo smartphone che abbiamo in tasca
e, presto, ci saranno gli occhiali di Google che porteremo sul naso.”
Ecco allora che basterà “raccogliere informazioni da diversi oggetti
di questo tipo e metterle insieme per trarre le stesse deduzioni e previsioni
che l’Nsa ottiene sorvegliando le nostre email o i tabulati telefonici. In
altri termini, l’Nsa può sapere dove ci troviamo controllando il nostro
cellulare oppure ottenendo dati dalle scarpe smart o dall’ombrello intelligente”
E buonanotte a tutto ciò che noi possiamo intendere per “privacy”.
Pensiamo, ad esempio, a quanto avviene già oggi con i servizi di posta
elettronica e con G-mail in particolare, che ci viene graziosamente offerto
gratuitamente: in qualità di consumatori/fruitori “non abbiamo nulla da ridire se
l’algoritmo di Google setaccia le nostre email per presentarci annunci
pubblicitari mirati. È questa pubblicità personalizzata, che si basa
sull’analisi e la classificazione immediata e automatica, a mantenere gratuito
il costoso sistema di posta elettronica di Google”.
Certamente, è proprio in base a una sorta di tacito accordo, in base al quale
Google può usare un algoritmo per analizzare le nostre email e venderci annunci
pubblicitari mirati, a rendere le nostre email gratuite e allo stesso tempo
accessibili all’Nsa.
Google non avrebbe problemi a crittografare
i nostri messaggi in modo che i suoi stessi algoritmi non riescano a
decifrarli, privando se stesso e l’Nsa di dati preziosi. Ma in questo caso non potrebbe
offrirci un servizio gratuito, e chi ne sarebbe contento?
In ultima analisi: noi accettiamo – più o meno consapevolmente – di
pagare un servizio che ci viene messo a disposizione mediante i nostri dati,
che hanno una precisa valenza ai fini economici: raccogliendo e disponendo dei
dati di milioni di utenti, Google può vendere servizi di pubblicità mirata alle
aziende produttrici di beni e servizi.
Questo è quanto accade ora con il servizio di posta elettronica, ma “quando
i nostri dispositivi e altri oggetti analogici saranno diventati smart, il
modello di Gmail si difonderà in ogni settore. Una serie di imprese commerciali
ci fornirà oggetti e dispositivi gratuiti o con un prezzo pari solo a una
piccola parte del loro costo reale. In altri termini, il nostro spazzolino da
denti intelligente sarà gratis, ma in cambio accetteremo che raccolga dati su come
lo usiamo. Saranno questi dati a finanziare lo spazzolino. Oppure, per oggetti con
schermi e altoparlanti, potremo vedere o sentire una pubblicità personalizzata che
si basa sull’uso che ne facciamo, e sarà la pubblicità a coprire i costi”.
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