A
rendere interessante l'intervento, oltre all'autorevolezza
scientifica dell'autore è la sua stessa collocazione all'interno
dell'Associazione Nazionale Magistrati, essendo egli uno dei
fondatori della corrente più di sinistra di Magistratura
Democratica.
Secondo
Ferrajoli, a cominciare da Mani Pulite, «la difesa incondizionata
della giurisdizione ha finito per generare (…), anche, purtroppo,
tra molti giudici, la concezione del potere giudiziario come potere
buono e salvifico», spesso facendo «trascurare, o peggio
avallare prassi giudiziarie illiberali e antigarantiste, in contrasto
con quella stessa legalità che esse pretendono di difendere».
Venendo
ai giorni nostri, tranciante è la critica verso la figura del
“giudice star”, visto come “negazione del modello
garantista della giurisdizione”. Soprattutto è inammissibile
che i magistrati parlino in pubblico, e meno che mai in televisione,
dei processi loro affidati. E invece “abbiamo assistito in
questi mesi a trasmissioni televisive desolanti, nelle quali dei
pubblici ministeri parlavano dei processi da loro stessi istruiti,
sostenevano le loro accuse...”
Altrettanto
grave è il conseguente “populismo giudiziario”, che
“diventa intollerabile allorquando serve da trampolino per
carriere politiche”
E
guardando a recenti casi giudiziari, come quello della trattativa
Stato-mafia, Ferrajoli non lesina certo le accuse verso un certo modo
di interpretare l'azione giudiziaria: “...nel
famoso processo sulla trattativa Stato-mafia, non esistendo nel
nostro ordinamento il reato di trattativa, mi è difficile capire
come si possa, senza ledere il principio di tassatività e il divieto
di analogia, accomunare nel reato di minaccia a corpo politico sia
gli autori della minaccia, sia quanti ne furono i destinatari o i
tramiti o le vittime designate. Ovviamente possiamo ben considerare
quella trattativa un fatto gravissimo di deviazione politica. Ma di
responsabilità politica appunto si tratta. E la separazione dei
poteri va difesa non solo dalle indebite interferenze della politica
nell’attività giudiziaria, ma anche dalle indebite interferenze
della giurisdizione nella sfera di competenza della politica”
Da
qui la necessità e l'urgenza di «ridefinire una
deontologia giudiziaria», che
dovrebbe basarsi su nove regole che riportiamo abbreviando per
necessità e cercando di citare le parti più pregnanti e utili a
comprendere alcuni limiti dell'azione giudiziaria oggi, in Italia.
PRIMA. La
consapevolezza del carattere “terribile” e “odioso” del
potere giudiziario.
Consiste
nella consapevolezza, che sempre dovrebbe assistere qualunque giudice
o pubblico ministero, che il potere giudiziario è un «potere
terribile», come lo chiamò Montesquieu (De l’esprit des lois,
1748) .. perché, diversamente da qualunque altro pubblico potere –
legislativo, politico o amministrativo – è un potere dell’uomo
sull’uomo, che decide della libertà ed è perciò in grado di
rovinare la vita delle persone sulle quali è esercitato.
SECONDA. La
consapevolezza del carattere relativo e incerto della verità
processuale e perciò di un margine irriducibile di illegittimità
dell’esercizio della giurisdizione.
...la
verità processuale è sempre una verità relativa e
approssimativa... anche la legittimazione del potere giudiziario –
come del resto la legittimazione di qualunque altro potere pubblico,
a cominciare dalla rappresentatività dei poteri politici – è
sempre, a sua volta, relativa e approssimativa. (…)
TERZA. Il
valore del dubbio e la consapevolezza della permanente possibilità
dell’errore in fatto e in diritto.
La
terza regola della deontologia giudiziaria riguarda l’accertamento
della verità fattuale, e consiste nel costume e nella pratica del
dubbio conseguente a una terza consapevolezza: che la verità
processuale fattuale non è mai una verità assoluta o oggettiva...
il rifiuto di ogni arroganza cognitiva, la prudenza del giudizio –
da cui il bel nome “giuris-prudenza” – come stile morale e
intellettuale della pratica giudiziaria e in generale delle
discipline giuridiche.
QUARTA. La
disponibilità all’ascolto delle opposte ragioni e l’indifferente
ricerca del vero.
...Il
giudizio, come scrissero Cesare Beccaria e ancor prima Ludovico
Muratori, deve consistere «nell’indifferente ricerca del vero». È
su questa indifferenza, che è propria di ogni attività cognitiva e
comporta la costante disponibilità
a rinunciare alle proprie ipotesi di fronte alle loro smentite,
che si fonda il processo che Beccaria chiamò «informativo», in
opposizione a quello che chiamò invece «processo offensivo», nel
quale, egli scrisse, «il giudice diviene nemico del reo» e «non
cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo
insidia, e crede di perdere se non vi riesce, e di far torto a
quell’infallibilità che l’uomo s’arroga in tutte le cose»
(Dei delitti e delle pene, 1766).
QUINTA. La
comprensione e la valutazione equitativa della singolarità di
ciascun caso.
Questa
dimensione riguarda la comprensione e la valutazione delle
circostanze singolari e irripetibili che fanno di ciascun fatto, di
ciascun caso, di ciascuna vicenda sottoposta a giudizio un fatto e un
caso irriducibilmente diversi da qualunque altro... Ed è chiaro che
la comprensione del contesto, delle concrete circostanze, delle
ragioni singolari del fatto comporta sempre un atteggiamento di
indulgenza, soprattutto a favore dei soggetti più deboli.
SESTA. Il
rispetto di tutte le parti in causa.
La
sesta regola deontologica è il rispetto per le parti in causa,
incluso l’imputato, chiunque esso sia, soggetto debole o forte,
incluso il mafioso o il terrorista o il politico corrotto. Il
diritto penale nel suo modello garantista equivale alla legge del più
debole. E non dimentichiamo che se nel momento del reato il soggetto
debole è la parte offesa, nel momento del processo il soggetto
debole è sempre l’imputato e i suoi diritti e le sue garanzie sono
altrettante leggi del più debole.
...si
giudica il fatto e non la persona, il reato e non il suo autore, la
cui identità e interiorità sono sottratte al giudizio penale.
SETTIMA. La
capacità di suscitare la fiducia delle parti, anche degli imputati.
Il
magistrato non deve cercare il consenso della pubblica opinione: un
giudice deve anzi essere capace, sulla base della corretta cognizione
degli atti del processo, di assolvere quando tutti chiedono la
condanna e di condannare quando tutti chiedono l’assoluzione.
Le
sole persone di cui i magistrati devono riuscire ad avere non già il
consenso, ma la fiducia, sono le parti in causa e principalmente gli
imputati: fiducia nella loro imparzialità, nella loro onestà
intellettuale, nel loro rigore morale, nella loro competenza tecnica
e nella loro capacità di giudizio.
OTTAVA. Il
valore della riservatezza del magistrato riguardo ai processi di cui
è titolare.
L’ottava
regola, connessa alla settima, è una regola di sobrietà e
riservatezza. Ciò che i magistrati devono evitare con ogni cura,
nell’odierna società dello spettacolo, è qualunque forma di
protagonismo giudiziario e di esibizionismo.
Si
capisce la tentazione, per quanti sono titolari di un così terribile
potere, della notorietà, dell’applauso e dell’autocelebrazione
come potere buono. Ma questa tentazione vanagloriosa deve essere
fermamente respinta.
NONA. Il
rifiuto anche solo del sospetto di una strumentalizzazione politica
della giurisdizione.
...non
dar luogo neppure al più lontano sospetto di una strumentalizzazione
politica della giurisdizione. Oggi (a inizio febbraio, prima
delle elezioni...) l’immagine della magistratura
presso il grande pubblico rischia di identificarsi con quella di tre
pubblici ministeri divenuti noti per le loro inchieste, i quali hanno
dato vita a una lista elettorale capeggiata da uno di loro, promossa
da un altro con il contributo del partito personale del terzo. È
un’immagine deleteria, che compromette la credibilità della
magistratura, oltre che delle stesse inchieste che hanno reso noti
quei magistrati.
...è
sufficiente il semplice sospetto che l’attività giudiziaria o
anche solo la notorietà acquisita attraverso i processi siano
strumentalizzate a fini politici ed elettorali a giustificare una
più rigorosa disciplina della partecipazione dei magistrati alle
competizioni elettorali.
-Nato
a Firenze nel 1940, Luigi Ferrajoli è forse oggi il maggiore teorico
del diritto italiano. Dopo aver fatto il magistrato e aver
contribuito a fondare Magistratura democratica, è stato professore
di Filosofia del diritto, prima a Camerino e poi a Roma 3. Fra le sue
opere possono ricordarsi almeno Teoria assiomatizzata del
diritto (Giuffrè, 1970), Diritto e ragione. Teoria
del garantismo penale (Laterza, 1989) e l’ultima
monumentale Principia iuris. Teoria del diritto e della
democrazia (Laterza, 2008).
Alterna
al lavoro teorico e alle conferenze in ogni parte del mondo
l’intervento puntuale su temi civili, in particolare dalle colonne
del quotidiano «il manifesto». -
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