-Anche
per chi non è un appassionato/intenditore di calcio, la lettura
dell’autobiografia IBRAHIMOVIC presenta non pochi spunti davvero
interessanti. Scritta con il giornalista David Lagercrantz, è una
storia di immigrazione che ha venduto 700mila copie solo in
Svezia ed è stata pubblicata in quindici paesi.
Il
padre di Ibra è bosniaco, la madre croata: sposati per consentire al
padre di ottenere il permesso di soggiorno in Svezia, il matrimonio e
durato poco.
Di
tutte le figure di fratelli/fratellastri che incontriamo, solo Selena
è sorella di Ibra per parte di entrambe i genitori. E nei primi anni
si susseguono le azioni di affido ora all’uno ora all’altro
genitore, a volte i due fratelli insieme, a volte uno per parte.
Il
quartiere di Rosengard a Malmo, una sorta di ghetto in cemento, “era
pieno di somali, turchi, jugoslavi, polacchi e ogni genere di
immigrati, più qualche svedese”.
La
madre si ammazza di lavoro come donna delle pulizie, “sgobbava
per mantenerci, era davvero una tipa tosta, ma non le rimaneva
energia per molto altro”. La
vita dell’immigrato è dura, far quadrare i conti non è facile e
non si può certo perder tempo con le questioni di Galateo:
“Da noi non si viaggiava ad abbracci ed effusioni”
e il tempo da dedicare ai figli è sempre davvero poco, tanto che
“nessun
adulto ti dava una mano con i compiti o chiedeva se avevi dei
problemi. Ti dovevi arrangiare da solo e non era il caso di lagnarsi
se qualcuno ti aveva fatto uno sgarbo”.
In
casa non si dice “Tesoro, potresti essere così gentile da passarmi
il burro?”, ma si usa qualcosa del tipo: “Muovi il culo e va a
prendere il latte!”
Le
barriere culturali, per la prima generazione di immigrati, resistono
e separano sempre fortemente, tanto che “La
televisione svedese era come se non esistesse” - scrive
Ibra
- “noi vivevamo in un mondo completamente diverso. Sono dovuto
arrivare a vent’anni, prima di vedere il mio primo film svedese, e
non avevo la minima conoscenza degli eroi o dei campioni sportivi
svedesi”.
In
un paese nuovo e incomprensibile, dunque, è molto difficile che la
prima generazione ce la faccia. Il padre fa il custode e beve troppo.
Erano “lattine di birra e musica popolare jugoslava e
frigoriferi vuoti e la guerra dei Balcani”.
E
per quel che riguarda la tragedia deell'ex-jugoslavia, scrive Ibra:
“Della
guerra non ho mai capito un granché. Non mi raccontavano mai niente.
Mi proteggevano. Non capii nemmeno perché mamma e le mie sorelle
iniziarono a vestirsi di nero”.
Sa però che l’intero villaggio bosniaco di suo padre è stato
decimato dai serbi e dalla loro pulizia etnica.
Le
tensioni non sono per niente attutite anche dentro i confini della
famiglia, perchè “sapete,
noi dei Balcani siamo gente dura” e
così la mamma litiga con due delle figlie. Si tratta di litigi
terribili e irrimediabili. Dopo la rottura con la sorella maggiore,
coinvolta in vicende di droga, “anche
l’altra mia sorellastra fu radiata dalla famiglia. La mamma
semplicemente la cancellò e io non so neanche di preciso per quale
motivo. Era per via di qualche bega che aveva a che fare con un
fidanzato, un ragazzo jugoslavo… e lei e la mamma si erano urlate e
si erano dette cose tremende… ma non era certo la fine del mondo…
Ma la mamma è orgogliosa”
E
di fatto della sorella radiata dalla famiglia non se ne parla più.
Passano gli anni e anche quando – dopo quindici anni - si fa vivo
il figlio della sorella, la nonna rimane irremovibile e “non
ne volle sapere di lui”. Ibra
rimane incredulo quando viene a saperlo, perché
“non si fa così! Per nessuna ragione! Ma c’è così tanto
orgoglio nella mia famiglia che rende difficile ogi cosa. E io posso
solo ringraziare Dio di aver avuto il calcio” (pag
49 – 50)
E'
sul campo di calcio che il giovane Ibra può dare pieno sfogo alla
sua vitalità, alla sua esuberanza, al suo voler essere più forte
dagli altri, anche se la fiducia di potercela fare stenta a farsi
strada. Pur sentendo di avere i “numeri”, resta a lungo convinto
“che
il mondo fosse ingiusto, che ragazzi come me non avevano alcuna
possibilità e che non sarei mai diventato un campione, qualsiasi
qualità potessi avere”, anche
quando gioca nelle giovanili del Malmo.
Finchè
un giorno, dopo una partita, Roland Andersson, il mister della prima
squadra, vuole parlargli: “Fui preso dal panico. Cos’ho
combinato stavolta? Ho rubato una bici? Ho dato una testata a
qualcuno?...”.
E
così viene a sapere che giocherà con la prima squadra
professionista del Malmo: “Era
come se mi avessero sollevato a dieci metri da terra… e una volta
fuori, fregai un’altra bici e mi sentii il ragazzo più figo della
città”. (pag. 71 - 72)
I
genitori seguono l’ascesa dei figli, sgomenti. Poco tempo dopo
essere passato al calcio professionistico, nel Malmö, Ibra nota un
uomo dai capelli brizzolati che segue l’allenamento da lontano,
sotto alcuni alberi. Suo padre – che non si era mai disturbato ad
andarlo a vedere giocare quando Ibra era piccolo – alla fine si era
deciso. Ibra ricorda: “‘Guarda
papà, guarda!’, avrei voluto gridare, ‘tuo figlio è il
giocatore più forte del mondo!’”.
Ben
presto, prosegue, la casa di suo padre “diventò una specie di
museo dedicato alla mia carriera: ritagliava ogni singolo articolo,
ogni piccolo trafiletto, e così ha sempre continuato a fare”.
Anche
i rapporti con le ragazze del luogo non sono per niente facili e
ricorda quando al liceo Borgar di Malmö “per
la prima volta, vedendo le ragazze con le felpe Ralph Lauren, me la
facevo quasi addosso quando dovevo invitarle a uscire”.
Sarà
proprio una di queste, Helena Seger, bionda e perfetta svedese, la
sua futura compagna che viene “da
una famiglia modello di Lindesberg”. Per
lei, Ibra
è “un
povero jugoslavo, con un’auto veloce e un orologio d’oro, che
ascolta la musica a volume troppo alto”
e gli insegna a usare le posate da pesce, e a bere un buon bicchiere
di vino che, scopre, che non va buttato giù d’un fiato come un
bicchiere di latte, ma va assaporato. E con lei forma una famiglia,
nascono due figli e Ibra ci regala belle pagine sul suo attaccamento
verso la compagna e i figli, ai quali cerca di dare quelle tenerezze
che lui da piccolo non ha potuto conoscere.
Divenuto
professionista e ormai un campione, vince addirittura il premio
Jerring, quello assegnato dal pubblico svedese al suo sportivo
preferito (di solito è uno sciatore biondo). Il ragazzaccio si
commuove fino alle lacrime: “Forse
l’ho preso come un segno che ero stato veramente accettato, non
solo come calciatore ma come persona, nonostante tutte le mie sparate
e le mie origini”.
Da
ultimo, un cenno alla sua battaglia
contro
la segregazione, che rimane forte anche dentro gli spazi dorati del
grande calcio stellare.
Quando
arriva all’Inter nota che la distribuzione dei posti negli
spogliatoi dipende dalla nazionalità. I giocatori brasiliani siedono
in un angolo, quelli argentini in un altro e tutti gli altri in un
terzo.
Ibra
può capire che ognuno si sieda vicino agli amici, succede in tutte
le squadre.
Ma
qui “si
raggruppavano per nazionalità. Era una roba da età della pietra”.
Dice al presidente dalla squadra, Massimo Moratti, che le cose devono
cambiare. Questi attacchi contro la segregazione sono le uniche
opinioni di carattere sociale che Ibra esprime nel libro. Anche
questo un modo per eviatare di cadere nella retorica, quando un
“ragazzo arrabbiato” racconta la sua storia, nella consapevolezza
che “puoi
uscire dal ghetto, ma il ghetto non esce più da te”.
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