26 marzo 2013

IO, IBRA - autobiografia di un immigrato

-Anche per chi non è un appassionato/intenditore di calcio, la lettura dell’autobiografia IBRAHIMOVIC presenta non pochi spunti davvero interessanti. Scritta con il giornalista David Lagercrantz, è una storia di immigrazione che ha venduto 700mila copie solo in Svezia ed è stata pubblicata in quindici paesi.
Il padre di Ibra è bosniaco, la madre croata: sposati per consentire al padre di ottenere il permesso di soggiorno in Svezia, il matrimonio e durato poco.
Di tutte le figure di fratelli/fratellastri che incontriamo, solo Selena è sorella di Ibra per parte di entrambe i genitori. E nei primi anni si susseguono le azioni di affido ora all’uno ora all’altro genitore, a volte i due fratelli insieme, a volte uno per parte.

Il quartiere di Rosengard a Malmo, una sorta di ghetto in cemento, “era pieno di somali, turchi, jugoslavi, polacchi e ogni genere di immigrati, più qualche svedese”.
La madre si ammazza di lavoro come donna delle pulizie, “sgobbava per mantenerci, era davvero una tipa tosta, ma non le rimaneva energia per molto altro”. La vita dell’immigrato è dura, far quadrare i conti non è facile e non si può certo perder tempo con le questioni di Galateo: “Da noi non si viaggiava ad abbracci ed effusioni” e il tempo da dedicare ai figli è sempre davvero poco, tanto che “nessun adulto ti dava una mano con i compiti o chiedeva se avevi dei problemi. Ti dovevi arrangiare da solo e non era il caso di lagnarsi se qualcuno ti aveva fatto uno sgarbo”. 
In casa non si dice “Tesoro, potresti essere così gentile da passarmi il burro?”, ma si usa qualcosa del tipo: “Muovi il culo e va a prendere il latte!”
Le barriere culturali, per la prima generazione di immigrati, resistono e separano sempre fortemente, tanto che “La televisione svedese era come se non esistesse” - scrive Ibra - “noi vivevamo in un mondo completamente diverso. Sono dovuto arrivare a vent’anni, prima di vedere il mio primo film svedese, e non avevo la minima conoscenza degli eroi o dei campioni sportivi svedesi”. 
In un paese nuovo e incomprensibile, dunque, è molto difficile che la prima generazione ce la faccia. Il padre fa il custode e beve troppo. Erano “lattine di birra e musica popolare jugoslava e frigoriferi vuoti e la guerra dei Balcani”.
E per quel che riguarda la tragedia deell'ex-jugoslavia, scrive Ibra: “Della guerra non ho mai capito un granché. Non mi raccontavano mai niente. Mi proteggevano. Non capii nemmeno perché mamma e le mie sorelle iniziarono a vestirsi di nero”. Sa però che l’intero villaggio bosniaco di suo padre è stato decimato dai serbi e dalla loro pulizia etnica.
Le tensioni non sono per niente attutite anche dentro i confini della famiglia, perchè “sapete, noi dei Balcani siamo gente dura” e così la mamma litiga con due delle figlie. Si tratta di litigi terribili e irrimediabili. Dopo la rottura con la sorella maggiore, coinvolta in vicende di droga, “anche l’altra mia sorellastra fu radiata dalla famiglia. La mamma semplicemente la cancellò e io non so neanche di preciso per quale motivo. Era per via di qualche bega che aveva a che fare con un fidanzato, un ragazzo jugoslavo… e lei e la mamma si erano urlate e si erano dette cose tremende… ma non era certo la fine del mondo… Ma la mamma è orgogliosa”
E di fatto della sorella radiata dalla famiglia non se ne parla più. Passano gli anni e anche quando – dopo quindici anni - si fa vivo il figlio della sorella, la nonna rimane irremovibile e “non ne volle sapere di lui”. Ibra rimane incredulo quando viene a saperlo, perché “non si fa così! Per nessuna ragione! Ma c’è così tanto orgoglio nella mia famiglia che rende difficile ogi cosa. E io posso solo ringraziare Dio di aver avuto il calcio” (pag 49 – 50)
E' sul campo di calcio che il giovane Ibra può dare pieno sfogo alla sua vitalità, alla sua esuberanza, al suo voler essere più forte dagli altri, anche se la fiducia di potercela fare stenta a farsi strada. Pur sentendo di avere i “numeri”, resta a lungo convinto “che il mondo fosse ingiusto, che ragazzi come me non avevano alcuna possibilità e che non sarei mai diventato un campione, qualsiasi qualità potessi avere”, anche quando gioca nelle giovanili del Malmo.
Finchè un giorno, dopo una partita, Roland Andersson, il mister della prima squadra, vuole parlargli: “Fui preso dal panico. Cos’ho combinato stavolta? Ho rubato una bici? Ho dato una testata a qualcuno?...”.
E così viene a sapere che giocherà con la prima squadra professionista del Malmo: “Era come se mi avessero sollevato a dieci metri da terra… e una volta fuori, fregai un’altra bici e mi sentii il ragazzo più figo della città”. (pag. 71 - 72)
I genitori seguono l’ascesa dei figli, sgomenti. Poco tempo dopo essere passato al calcio professionistico, nel Malmö, Ibra nota un uomo dai capelli brizzolati che segue l’allenamento da lontano, sotto alcuni alberi. Suo padre – che non si era mai disturbato ad andarlo a vedere giocare quando Ibra era piccolo – alla fine si era deciso. Ibra ricorda: “‘Guarda papà, guarda!’, avrei voluto gridare, ‘tuo figlio è il giocatore più forte del mondo!’”.
Ben presto, prosegue, la casa di suo padre “diventò una specie di museo dedicato alla mia carriera: ritagliava ogni singolo articolo, ogni piccolo trafiletto, e così ha sempre continuato a fare”.
Anche i rapporti con le ragazze del luogo non sono per niente facili e ricorda quando al liceo Borgar di Malmö “per la prima volta, vedendo le ragazze con le felpe Ralph Lauren, me la facevo quasi addosso quando dovevo invitarle a uscire”.
Sarà proprio una di queste, Helena Seger, bionda e perfetta svedese, la sua futura compagna che viene “da una famiglia modello di Lindesberg”. Per lei, Ibra è “un povero jugoslavo, con un’auto veloce e un orologio d’oro, che ascolta la musica a volume troppo alto” e gli insegna a usare le posate da pesce, e a bere un buon bicchiere di vino che, scopre, che non va buttato giù d’un fiato come un bicchiere di latte, ma va assaporato. E con lei forma una famiglia, nascono due figli e Ibra ci regala belle pagine sul suo attaccamento verso la compagna e i figli, ai quali cerca di dare quelle tenerezze che lui da piccolo non ha potuto conoscere.
Divenuto professionista e ormai un campione, vince addirittura il premio Jerring, quello assegnato dal pubblico svedese al suo sportivo preferito (di solito è uno sciatore biondo). Il ragazzaccio si commuove fino alle lacrime: “Forse l’ho preso come un segno che ero stato veramente accettato, non solo come calciatore ma come persona, nonostante tutte le mie sparate e le mie origini”.
Da ultimo, un cenno alla sua battaglia contro la segregazione, che rimane forte anche dentro gli spazi dorati del grande calcio stellare. Quando arriva all’Inter nota che la distribuzione dei posti negli spogliatoi dipende dalla nazionalità. I giocatori brasiliani siedono in un angolo, quelli argentini in un altro e tutti gli altri in un terzo.
Ibra può capire che ognuno si sieda vicino agli amici, succede in tutte le squadre.
Ma qui “si raggruppavano per nazionalità. Era una roba da età della pietra”. Dice al presidente dalla squadra, Massimo Moratti, che le cose devono cambiare. Questi attacchi contro la segregazione sono le uniche opinioni di carattere sociale che Ibra esprime nel libro. Anche questo un modo per eviatare di cadere nella retorica, quando un “ragazzo arrabbiato” racconta la sua storia, nella consapevolezza che “puoi uscire dal ghetto, ma il ghetto non esce più da te”.

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