--“Anche gli uomini dell’età della
pietra si prendevano cura dei disabili”: questo il titolo di un interessante
articolo, a firma di Adriana Bazzi, pubblicato domenica 12 febbraio dal
Corriere della Sera.
Che uomini dell’età della pietra si
prendano cura, per svariati anni, di chi è rimasto paralizzato o che provvedano
alla crescita di chi è affetto da una grave forma di nanismo fortemente
invalidante, sono altrettante
testimonianze che la nostra attenzione verso gli altri uomini è unica e che il
concetto di “amare il prossimo” è tanto profondamente radicato nella nostra
storia da perdersi nella notte dei tempi e fare un tutt’uno con il nostro
essere uomini.
Anche questo è un modo per
ricordarci quanta profonda e incolmabile sia la differenza tra l’uomo e gli
altri animali, a cominciare dal culto dei morti testimoniato da alcune
sepolture neandertaliane, dove i corpi non sono stati abbandonati, ma sono
stati composti, protetti e ornati con vegetali.
Nel sito archeologico del Romito,
all'interno del Parco del Pollino, in Calabria, uno scheletro di 12.000 anni fa
ci parla di un individuo che, verso i vent’anni, rimane paralizzato alle
braccia e, nonostante questo, sopravvive ancora a lungo. E questo,
evidentemente, grazie all’aiuto e alla disponibilità degli altri membri della
comunità, che si sono presi cura di chi non era più in grado di cacciare
animali o di provvedere alla raccolta di bacche e frutti commestibili.
L’analisi dei resti ossei rivela
sempre importanti tracce del nostro passato: «Le ossa delle gambe raccontano che rimaneva a lungo accovacciato,
mentre i suoi denti, l'unica cosa sana e forte che gli era rimasta, mostrano
segni di usura fino alla radice - spiega Fabio Martini, archeologo
all'Università di Firenze - e questo fa
pensare che li abbia usati per un lavoro: per masticare materiale duro come
legno tenero oppure canniccio che altri, si può ipotizzare, avrebbero
utilizzato per costruire manufatti come cestini o stuoie. Quelle lesioni non
trovano nessun’altra giustificazione».
Il giovane rimasto invalido, dunque,
sopravvive perché qualcuno lo accudisce e gli procura persino un'occupazione.
Altri resti, rinvenuti nello stesso
sito, raccontano invece la storia di un individuo affetto da nanismo, alto un
metro e dieci e dotato di arti molto corti, che non lo rendevano certamente
abile per la caccia: nonostante questo, emerge dall’analisi delle ossa, è
sopravvissuto fino a vent’ anni, assistito dalla sua comunità.
Con questo tipo di analisi procede
la “bioarcheologia della sanità”: l’analisi dei resti di individui malati o
disabili non si limita alla fase di diagnosi clinica, ma cerca di individuare
il tipo di assistenza che ciò poteva richiedere e le cure che sono state
dedicate al soggetto svantaggiato.
I resti di un uomo di circa 30 anni,
rinvenuti in un sito archeologico vietnamita, mostrano un’atrofia
delle braccia e delle gambe e un'anchilosi
di numerose vertebre tali da far ipotizzare la paralisi completa degli arti
superiori se non anche di quelli inferiori, intervenuta all’età dell’adolescenza.
Eppure, nonostante questa forte disabilità, l’individuo è sopravvissuto per
almeno dieci anni. Evidentemente, concludono gli studiosi che hanno seguito
questo caso, la comunità si prendeva cura di lui, provvedendo a tutti i suoi
bisogni “da quelli più semplici, come il
mangiare, il vestirsi, il muoversi, a quelli più complessi come il mantenimento
dell'igiene personale o la somministrazione di vere e proprie cure”.
Questo caso, inoltre, ci dicono gli
archeologi, ci testimonia non solo una società disponibile verso uno dei propri
membri bisognoso di cure assai impegnative per quei tempi, ma ci dice anche che
lo stesso soggetto affetto da disabilità “aveva
una certa stima di sé e una grande forza di volontà. Senza questo non avrebbe
potuto sopravvivere”.
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