14 febbraio 2013

L'uomo primitivo curava i disabili

--“Anche gli uomini dell’età della pietra si prendevano cura dei disabili”: questo il titolo di un interessante articolo, a firma di Adriana Bazzi, pubblicato domenica 12 febbraio dal Corriere della Sera.
Che uomini dell’età della pietra si prendano cura, per svariati anni, di chi è rimasto paralizzato o che provvedano alla crescita di chi è affetto da una grave forma di nanismo fortemente invalidante,  sono altrettante testimonianze che la nostra attenzione verso gli altri uomini è unica e che il concetto di “amare il prossimo” è tanto profondamente radicato nella nostra storia da perdersi nella notte dei tempi e fare un tutt’uno con il nostro essere uomini.


 Anche questo è un modo per ricordarci quanta profonda e incolmabile sia la differenza tra l’uomo e gli altri animali, a cominciare dal culto dei morti testimoniato da alcune sepolture neandertaliane, dove i corpi non sono stati abbandonati, ma sono stati composti, protetti e ornati con vegetali.
Nel sito archeologico del Romito, all'interno del Parco del Pollino, in Calabria, uno scheletro di 12.000 anni fa ci parla di un individuo che, verso i vent’anni, rimane paralizzato alle braccia e, nonostante questo, sopravvive ancora a lungo. E questo, evidentemente, grazie all’aiuto e alla disponibilità degli altri membri della comunità, che si sono presi cura di chi non era più in grado di cacciare animali o di provvedere alla raccolta di bacche e frutti commestibili.
L’analisi dei resti ossei rivela sempre importanti tracce del nostro passato: «Le ossa delle gambe raccontano che rimaneva a lungo accovacciato, mentre i suoi denti, l'unica cosa sana e forte che gli era rimasta, mostrano segni di usura fino alla radice - spiega Fabio Martini, archeologo all'Università di Firenze - e questo fa pensare che li abbia usati per un lavoro: per masticare materiale duro come legno tenero oppure canniccio che altri, si può ipotizzare, avrebbero utilizzato per costruire manufatti come cestini o stuoie. Quelle lesioni non trovano nessun’altra giustificazione».
Il giovane rimasto invalido, dunque, sopravvive perché qualcuno lo accudisce e gli procura persino un'occupazione.
Altri resti, rinvenuti nello stesso sito, raccontano invece la storia di un individuo affetto da nanismo, alto un metro e dieci e dotato di arti molto corti, che non lo rendevano certamente abile per la caccia: nonostante questo, emerge dall’analisi delle ossa, è sopravvissuto fino a vent’ anni, assistito dalla sua comunità.
Con questo tipo di analisi procede la “bioarcheologia della sanità”: l’analisi dei resti di individui malati o disabili non si limita alla fase di diagnosi clinica, ma cerca di individuare il tipo di assistenza che ciò poteva richiedere e le cure che sono state dedicate al soggetto svantaggiato.
I resti di un uomo di circa 30 anni, rinvenuti in un sito archeologico vietnamita, mostrano un’atrofia
delle braccia e delle gambe e un'anchilosi di numerose vertebre tali da far ipotizzare la paralisi completa degli arti superiori se non anche di quelli inferiori, intervenuta all’età dell’adolescenza. Eppure, nonostante questa forte disabilità, l’individuo è sopravvissuto per almeno dieci anni. Evidentemente, concludono gli studiosi che hanno seguito questo caso, la comunità si prendeva cura di lui, provvedendo a tutti i suoi bisogni “da quelli più semplici, come il mangiare, il vestirsi, il muoversi, a quelli più complessi come il mantenimento dell'igiene personale o la somministrazione di vere e proprie cure”.
Questo caso, inoltre, ci dicono gli archeologi, ci testimonia non solo una società disponibile verso uno dei propri membri bisognoso di cure assai impegnative per quei tempi, ma ci dice anche che lo stesso soggetto affetto da disabilità “aveva una certa stima di sé e una grande forza di volontà. Senza questo non avrebbe potuto sopravvivere”.



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