8 dicembre 2013

"Io sono Malala": un libro da leggere

-La storia di Malala si svolge nella valle dello Swat, nel nord del Pakistan, presso al città di Mingora. La bambina è animata da intelligenza vivace e dalla gran voglia di darsi da fare, soprattutto quando vede che le cose non vanno come dovrebbero.
Possiamo leggere la sua storia: “IO SONO MALALA. La mIa battaglia per la libertà e l’istruzione delle donne”, a cominciare dal 2008, quando i talebani, guidati da Fazlullah, cominciano a far sentire pesantemente la loro presenza nella valle dello Swatt, che viene, di fatto, sottratta alla normale giurisdizione dello Stato pakistano. Iniziano così le pesanti limitazioni alla libertà delle persone in generale, e alla libertà delle donne, in particolare,  tanto che alla fine dell’anno viene annunciato alla
radio che “le femmine non avrebbero più dovuto andare a scuola” a partire dall’inizio del nuovo anno.
In una paese dove il tasso di analfabetismo è ancora elevato e presenta livelli drammatici tra le donne, il papà di Malala ha fatto della promozione dell’istruzione di base la sua missione e il suo lavoro, così che ha avviato una scuola privata (tra le molte che sono sorte in tutta l’area per dare una risposta a un problema che lo Stato pakistano è ancora in difficoltà nel risolvere.
“Papà diceva sempre che il popolo dello Swat e i suoi insegnanti avrebbero continuato a istruire la nostra gioventù fino all’ultima aula e finchè l’ultimo maestro e l’ultimo studente fossero rimasti in vita” e non intende certo sottomettersi al diktat degli estremisti barbuti.
Anche Malala ha preso dal padre una innata intolleranza verso i suprusi e anche se ancora bambina si interroga su ciò che fanno i Talebani e su come viene da questi usata e abusata la fede religiosa: “Stanno abusando della nostra religione” dissi nel corso di un’intervista “Come  è possibile accettare l’Islam se c’è qualcuno che ti punta un fucile alla testa e ti dice che è l’unica vera religione? Se vogliono che tutte le persone del mondo diventino mussulmane, perché non mostrano al mondo di essere loro stessi dei buoni mussulmani?”
A dare una scossa a questa situazione, interviene la BCC, che vuole mostrare al mondo come si vive sotto i talebani: “Fu durante uno di quei giorni bui che mio padre ricevette la telefonata del suo amico Abdul Hai Kakar, corrispondente radiofonico della BCC con sede a Peshawar. Stava cercando un insegnante o una studentessa che volesse scrivere un diario raccontando la vita sotto i talebani. Voleva mostrare il alto umano della catastrofe in corso nello Swat”.
Potrebbe iniziare da qui la storia di Malala Yousafzai, vittima dei talebani proprio perché divenuta il simbolo di tutte quelle donne pakistane che rivendicano la libertà di studiare.
Il diario tenuto da Malala ha un notevole successo, perché dimostra “dal di dentro” la politica oscurantista dei talebani e le mortificazioni continue cui sono sottoposte le donne che vivono nei territori che questi controllano: “Il mio diario ricevette attenzioni anche da molto più lontano. Alcuni giornali ne pubblicarono degli stralci. La BBC ne realizzò addirittura una versione registrata, usando la voce di un’altra ragazza. COMINCIAVO A VEDERE CHE LA PENNA E LE PAROLE CHE NE ESCONO POSSONO ESSERE MOLTO PIU’ POTENTI DELLE MITRAGLIATRICI, DEI CARRI ARMATI O DEGLI ELICOTTERI. Stavamo imparando a condurre la nostra lotta. E stavamo cominciando a comprendere quanto possiamo essere forti quando prendiamo la parola in prima persona
A conferma del successo mediatico, nell’ottobre 2011, Malala è candidata al premio internazionale per la pace Kids Rights, su segnalazione di Desmonn Tutu, il vescovo sudafricano che ha affiancato Nelson Mandela nella lotta contro l’apartheid. Anche se Malala non vince, la sua voce è ormai ben conosciuta, tanto che viene invitata dal governatore del Punjab a parlare a Lahore, in occasione di una cerimonia di gala organizzata dal ministero dell’istruzione e le viene assegnato il Pakistan National Peace Award da parte del Governo, un premio di mezzo milione di rupie (3500 euro) da utilizzare nella sua campagna a favore dei diritti delle ragazze.
Ma il successo così raggiunto non le fa dimenticare lo scopo prioritario della sua azione, che trova conferma anche in episodi minuti, di ordinaria quotidianità, come quando racconta: “Vidi una bambina che vendeva arance. Stava facendo dei segni con una matita su un pezzo di carta per tenere il conto dei frutti che aveva venduto, perché non sapeva né leggere né scrivere. Le scattai una foto e giurai fra me e me di fare di tutto ciò che era in mio potere per garantire l’istruzione di tutte le bambine come lei. Era questa la guerra che intendevo combattere”
Anche le contraddizioni del Pakistan confermano gli nitenti della ragazzina che ha fatto della libertà e della possibilità di studiare da parte delle donne la sua missione. In Pakistan vi è stata una donna primo ministro e a Islamabad Malala ha visto molte donne impegnate nelle professioni, ma “resta il fatto che il nostro è un Paese in cui quasi tutte le donne dipendono totalmente da un uomo”, al punto che la direttrice della sua scuola, una donna forte e istruita, “non può venire al lavoro da sola: deve essere accompagnata dal marito, da un fratello o da un altro parente”
Malala continua a scrivere il blog e continua a frequentare al scuola di sempre, finchè, nell’ottobre 2012, un talebano assale il piccolo bus che la sta riportando a casa, dopo le lezioni, insieme ad alcune compagne. L’uomo chiede chi sia Malala e le scarica addosso quattro colpi di pistola: due colpiscono, in modo non grave, due compagne della ragazza, due vanno a segno. Il più grave penetra vicino all’occhio e dvesta il volto di Malala, riducendola in fin di vita.
Malala è ormai un’icona anche a livello internazionale e ciò che le succede suscita clamore sui media e riveste una notevole importanza politica. Subito si mobilitano le migliori risorse del Paese (sono quelle militari) per soccorrerla e salvarle la vita.
Non bastando quanto presente in patria, interviene la politica internazionale: offerte di aiuto arrivano da molte parti e, alla fine, si opta per Birmighan, dove si trova il Queen Elisabeth Hospital, specializzato nel curare i feriti di guerra. Per il trasporto, la famiglia reale degli Emirati Arabi mette a disposizione il proprio aereo, che  è dotato di ospedale di bordo.
Superata la fase critica, Malala si avvia alla guarigione, anche se non riuscirà a recuperare appieno la mobilità dei muscoli facciali. In Inghilterra la raggiungono poi i familiari e da qui continua la sua azione a favore della libertà e dei diritti delle donne.
Da ricordare, tra quanto ci racconta del suo vivere in Inghilterra, lo stupore – suo e dei suoi genitori – nel vedere le donne inglesi vestire in modo inconcepibile per la mentalità di chi ha vissuto sempre nella valle dello Swat e l’attaccamento di Malala ai propri costumi e tardizioni, come l’uso di coprirsi il capo, che fieramente mostra anche nelle molte occasioni pubbliche e ufficiali cui partecipa dopo l’attentato.
La ricordiamo quando, il 12 luglio scorso, in occasione del suo sedicesimo compleanno, ha tenuto un discorso all’Assemblea dell’ONU. Nello stesso mese, Adnand Rasheedm, leader dei Talebani pakistani, le ha scritto una lettera personale di scusa, ma non va dimenticato che Malala può essere ancora nel mirino degli estremisti, in quanto colpevole di aver irriso la religione islamica.
Leggendo queste pagine si rimane colpiti dal senso di tranquillità e pacatezza che da esse promana, anche quando parla dei talebani e del suo attentatore, verso cui non usa mai una parola di risentimento, ricordando, in questo, un grande come Nelson Mandela. Anche questi sono motivazioni forti che fanno si che Malala SIA tra i probabili candidati al Nobel per la Pace.


Il papà tiene sempre in tasca una Poesia di Martin Noemoller, un Pastore protestante vissuto nella Germania nazista
“Dapprima vennero a cercare i socialisti, e io non dissi niente perché non ero socialista.
poi vennero a cercare i sindacalisti e io non dissi niente perché non ero un sindacalista.
Poi vennero a cercare gli ebrei, e io non dissi niente perché non ero ebreo.
Poi vennero a cercare i cattolici, e io non dissi niente perché non ero cattolico.
Poi vennero a cercare me, e non c’era nessuno che parlasse in mia difesa” 

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