-La storia di Malala si svolge nella
valle dello Swat, nel nord del Pakistan, presso al città di Mingora. La bambina
è animata da intelligenza vivace e dalla gran voglia di darsi da fare,
soprattutto quando vede che le cose non vanno come dovrebbero.
Possiamo leggere la sua storia: “IO SONO MALALA. La mIa battaglia per la
libertà e l’istruzione delle donne”, a cominciare dal 2008, quando i
talebani, guidati da Fazlullah, cominciano a far sentire pesantemente la loro
presenza nella valle dello Swatt, che viene, di fatto, sottratta alla normale
giurisdizione dello Stato pakistano. Iniziano così le pesanti limitazioni alla
libertà delle persone in generale, e alla libertà delle donne, in particolare, tanto che alla fine dell’anno viene annunciato
allaradio che “le femmine non avrebbero più dovuto andare a scuola” a partire dall’inizio del nuovo anno.
In una paese dove il tasso di
analfabetismo è ancora elevato e presenta livelli drammatici tra le donne, il
papà di Malala ha fatto della promozione dell’istruzione di base la sua
missione e il suo lavoro, così che ha avviato una scuola privata (tra le molte
che sono sorte in tutta l’area per dare una risposta a un problema che lo Stato
pakistano è ancora in difficoltà nel risolvere.
“Papà diceva sempre che il popolo dello Swat e i suoi insegnanti
avrebbero continuato a istruire la nostra gioventù fino all’ultima aula e
finchè l’ultimo maestro e l’ultimo studente fossero rimasti in vita” e non
intende certo sottomettersi al diktat degli estremisti barbuti.
Anche Malala ha preso dal padre
una innata intolleranza verso i suprusi e anche se ancora bambina si interroga
su ciò che fanno i Talebani e su come viene da questi usata e abusata la fede
religiosa: “Stanno abusando della nostra religione” dissi nel corso di un’intervista
“Come è possibile accettare l’Islam se
c’è qualcuno che ti punta un fucile alla testa e ti dice che è l’unica vera
religione? Se vogliono che tutte le persone del mondo diventino mussulmane, perché non mostrano al mondo di
essere loro stessi dei buoni mussulmani?”
A dare una scossa a questa
situazione, interviene la BCC, che vuole mostrare al mondo come si vive sotto i
talebani: “Fu durante uno di quei giorni
bui che mio padre ricevette la telefonata del suo amico Abdul Hai Kakar,
corrispondente radiofonico della BCC con sede a Peshawar. Stava cercando un
insegnante o una studentessa che volesse scrivere un diario raccontando la vita
sotto i talebani. Voleva mostrare il alto umano della catastrofe in corso nello
Swat”.
Potrebbe iniziare da qui la
storia di Malala Yousafzai, vittima dei talebani proprio perché divenuta il
simbolo di tutte quelle donne pakistane che rivendicano la libertà di studiare.
Il diario tenuto da Malala ha un
notevole successo, perché dimostra “dal di dentro” la politica oscurantista dei
talebani e le mortificazioni continue cui sono sottoposte le donne che vivono
nei territori che questi controllano: “Il
mio diario ricevette attenzioni anche da molto più lontano. Alcuni giornali ne
pubblicarono degli stralci. La BBC ne realizzò addirittura una versione
registrata, usando la voce di un’altra ragazza. COMINCIAVO A VEDERE CHE LA PENNA E LE PAROLE CHE NE ESCONO POSSONO
ESSERE MOLTO PIU’ POTENTI DELLE MITRAGLIATRICI, DEI CARRI ARMATI O DEGLI
ELICOTTERI. Stavamo imparando a condurre la nostra lotta. E stavamo cominciando a comprendere quanto
possiamo essere forti quando prendiamo la parola in prima persona”
A conferma del successo
mediatico, nell’ottobre 2011, Malala è candidata al premio internazionale per
la pace Kids Rights, su segnalazione di Desmonn Tutu, il vescovo sudafricano
che ha affiancato Nelson Mandela nella lotta contro l’apartheid. Anche se
Malala non vince, la sua voce è ormai ben conosciuta, tanto che viene invitata
dal governatore del Punjab a parlare a Lahore, in occasione di una cerimonia di
gala organizzata dal ministero dell’istruzione e le viene assegnato il Pakistan
National Peace Award da parte del Governo, un premio di mezzo milione di rupie
(3500 euro) da utilizzare nella sua campagna a favore dei diritti delle
ragazze.
Ma il successo così raggiunto non
le fa dimenticare lo scopo prioritario della sua azione, che trova conferma
anche in episodi minuti, di ordinaria quotidianità, come quando racconta: “Vidi
una bambina che vendeva arance. Stava facendo dei segni con una matita su un
pezzo di carta per tenere il conto dei frutti che aveva venduto, perché non
sapeva né leggere né scrivere. Le scattai una foto e giurai fra me e me di fare
di tutto ciò che era in mio potere per garantire l’istruzione di tutte le
bambine come lei. Era questa la guerra che intendevo combattere”
Anche le contraddizioni del
Pakistan confermano gli nitenti della ragazzina che ha fatto della libertà e
della possibilità di studiare da parte delle donne la sua missione. In Pakistan
vi è stata una donna primo ministro e a Islamabad Malala ha visto molte donne
impegnate nelle professioni, ma “resta il
fatto che il nostro è un Paese in cui quasi tutte le donne dipendono totalmente
da un uomo”, al punto che la direttrice della sua scuola, una donna forte e
istruita, “non può venire al lavoro da
sola: deve essere accompagnata dal marito, da un fratello o da un altro
parente”
Malala continua a scrivere il
blog e continua a frequentare al scuola di sempre, finchè, nell’ottobre 2012,
un talebano assale il piccolo bus che la sta riportando a casa, dopo le
lezioni, insieme ad alcune compagne. L’uomo chiede chi sia Malala e le scarica
addosso quattro colpi di pistola: due colpiscono, in modo non grave, due
compagne della ragazza, due vanno a segno. Il più grave penetra vicino
all’occhio e dvesta il volto di Malala, riducendola in fin di vita.
Malala è ormai un’icona anche a
livello internazionale e ciò che le succede suscita clamore sui media e riveste
una notevole importanza politica. Subito si mobilitano le migliori risorse del
Paese (sono quelle militari) per soccorrerla e salvarle la vita.
Non bastando quanto presente in
patria, interviene la politica internazionale: offerte di aiuto arrivano da
molte parti e, alla fine, si opta per Birmighan, dove si trova il Queen
Elisabeth Hospital, specializzato nel curare i feriti di guerra. Per il
trasporto, la famiglia reale degli Emirati Arabi mette a disposizione il
proprio aereo, che è dotato di ospedale
di bordo.
Superata la fase critica, Malala
si avvia alla guarigione, anche se non riuscirà a recuperare appieno la
mobilità dei muscoli facciali. In Inghilterra la raggiungono poi i familiari e
da qui continua la sua azione a favore della libertà e dei diritti delle donne.
Da ricordare, tra quanto ci racconta
del suo vivere in Inghilterra, lo stupore – suo e dei suoi genitori – nel
vedere le donne inglesi vestire in modo inconcepibile per la mentalità di chi
ha vissuto sempre nella valle dello Swat e l’attaccamento di Malala ai propri
costumi e tardizioni, come l’uso di coprirsi il capo, che fieramente mostra
anche nelle molte occasioni pubbliche e ufficiali cui partecipa dopo
l’attentato.
La ricordiamo quando, il 12 luglio scorso, in occasione del suo
sedicesimo compleanno, ha tenuto un discorso all’Assemblea dell’ONU. Nello
stesso mese, Adnand Rasheedm, leader dei Talebani
pakistani, le ha scritto una lettera personale di scusa, ma non va dimenticato
che Malala può essere ancora nel mirino degli estremisti, in quanto colpevole
di aver irriso la religione islamica.
Leggendo
queste pagine si rimane colpiti dal senso di tranquillità e pacatezza che da
esse promana, anche quando parla dei talebani e del suo attentatore, verso cui
non usa mai una parola di risentimento, ricordando, in questo, un grande come
Nelson Mandela. Anche questi sono motivazioni forti che fanno si che Malala SIA tra i probabili candidati al Nobel
per la Pace.
Il papà tiene sempre in tasca una
Poesia di Martin Noemoller, un Pastore protestante vissuto nella Germania
nazista
poi vennero a cercare i
sindacalisti e io non dissi niente perché non ero un sindacalista.
Poi vennero a cercare gli ebrei,
e io non dissi niente perché non ero ebreo.
Poi vennero a cercare i
cattolici, e io non dissi niente perché non ero cattolico.
Poi vennero a cercare me, e non
c’era nessuno che parlasse in mia difesa”
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